Premessa: il titolo di questo articolo riprende l'incipit di un altro articolo, pubblicato su "La Stampa" da Gianni Vattimo in occasione della scomparsa di Richard Rorty. Per dovere di cronaca, tutto qui.
Ascoltare alla televisione Piergiorgio Odifreddi sostenere con convinzione la maggior veracità di un'operazione matematica rispetto all'esistenza di Dio mi suggerisce tre cose: la prima è che la legge di C.M. Cipolla secondo cui "sistematicamente ognuno di noi sottovaluta il numero di stupidi in circolazione" è sempre più attuale, ancor più se si tratta di programmi televisivi. La seconda è che, giunti a questo punto, un'ondata di trash-pop alla Grande Fratello non puo' che essere desiderabile. La terza, invece, è più uno stimolo, quello di ricominciare a scrivere su questo blog, partendo proprio da un tema a me caro: che cosa sia la verità e che rapporti essa abbia con le nostre asserzioni.
Innanzi tutto mi preme sottolineare questo fatto: i discorsi simil-odifreddiani sono ottime occasioni di marketing personale quanto momenti perfetti per dare aria ai denti. La questione da lui sollevata non solo non passa neanche dall'anticamera del mio cervello, ma se mai dovessi avere un abbaglio ne deriverei subito la sua totale inutilità.
Ma che cosa si intende per verità? o, meglio ancora, ha senso porci questa domanda?
Credo che attualmente la migliore soluzione per parlare di questi argomenti sia partire da una concezione deflazionistica (o minimalistica) che abbia come base quello che è passato alla storia come "schema di devirgolettazione" per cui
"p è vera" sse p
ovvero
"la neve è bianca" è vero sse "la neve è bianca"
Molti hanno interpretato questa disuguaglianza come l'ennesima conferma di una relazione di corrispondenza tra la realtà e una proposizione che la descrive, il cui valore di verità è funzione della verifica di uno stato del mondo: il fatto che questo schema non ci spieghi nulla sulla natura della verità ha indotto molti ad arricchirlo con modifiche che si sono rivelate, nel migliore dei casi, superflue.
Per esempio, per cercare di enfatizzare la malsana idea della corrispondenza potremmo dire:
"x è F" è vero sse esiste uno stato j: jRx e F è soddisfatto da x
In questo modo abbiamo introdotto uno "stato" (del mondo), per esempio un oggetto, che faccia da tramite tra la proposizione x e la sua proprietà V (es. il colore)
A ben pensarci però, in accordo l'obiezione avanzata da Strawson, il predicato di verità, cioè quella proprietà [V: x è V sse x], può essere visto anche come pura ridondanza, riducendo il valore di verità di una proposizione ad una mera proprietà linguistica costruita con e non dopo il linguaggio, proprio come Lucia è un nome proprio femminile. Questa interpretazione non spiega pero' ciò che ci ha spinti ad utilizzare la parola "vero" se di fatto essa non è di alcuna utilità: a questo proposito Horwich avanza un'ipotesi che mi sembra più sensata del "riduzionistico" Wittgenstein; l'utilizzo della locuzione "vero", e quindi del predicato stesso di verità, è utile quando non c'è la possibilità di usare quello che definisce come "quantificatore sostituzionale". Per esempio:
posto p=[E=mc^2], vale il principio deflazionista "p è vera" sse p.
Ma sostituendo, tramite il linguaggio italiano, p con
p'=[la legge di Einstein], allora esso non vale più in quanto p' da sola, senza un predicato di verità, non costituisce alcuna proposizione a valore enunciativo.
Potremmo allora definire il processo di quantificazione sostituzionale con il sussistere di un stato x e di una proposizione ipotetica, tali che la se p' è "la proposizione che x" allora essa puo' soddisfare il principio minimalista. O, ancora meglio, più genericamente, quantificazione come qualsiasi sostituzione grammaticale italiana di un enunciato dichiarativo al posto di
in <...p...> che dia luogo ad una verità.
In altre parole, ridurre il valore del predicato di verità ai minimi termini, pur non escludendo in toto il suo utilizzo, mi sembra uno dei tanti corretti tentativi di affermare la distinzione tra "mondo" e verità, tra il sussistere di stati e i fatti: affermare che il mondo è "là fuori" significa semplicemente riconoscere che certe cose sussistono a prescindere dagli stati mentali dell'uomo. Affermare invece, che la verità non è là fuori implica il prendere atto che dove non ci sono proposizioni non c'è verità, che le proposizioni sono unità del linguaggio umano e che, in quanto tali, sono creazioni umane.
Non bisogna dunque confondere il fatto che noi prendiamo il mondo a giustificazione dei nostri enunciati, con l'idea che il mondo stesso si spezzetti autonomamente in piccoli enunciati chiamati fatti.
Con ciò non voglio negare che non si possa prendere per vere certe proposizioni o credenze, ma che sia del tutto inutile interrogarsi se esse abbiano un riscontro nel mondo antecedente alla pratica linguistica oppure se semplicemente ci venga comodo usarle.
Il progresso della tecnica e il proliferare delle scienze applicate, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, ha oscurato quei tentativi incompleti di Hegel e Kant di scindere il legame di corrispondenza tra conoscenza e raggiungimento del Vero: nel capovolgere la dicotomia soggetto-oggetto affermando che era l'uomo (e quindi la realtà dei fatti) ad essere l'oggetto del pensiero, e non viceversa, Hegel aveva intravisto questa concezione, ma ne applicava i fondamenti solo nell'immanente, rimanendo fedele ad una concezione di spirito sovraterrestre e trascendente, provvisto di una natura propria e imperscrutabile, se non tramite una super-disciplina chiamata filosofia. Allo stesso modo Kant aveva gerarchizzato le verità, ritenendo il mondo della scienza empirica come qualcosa di costruito, definito all'interno di una cornice spazio-temporale aprioristica, ma continuando ad attribuire una natura "nascosta" all'animo e alla mente.
Insomma la metà inferiore, quella del mondo scientifico/empirico, era oggetto di costruzione, quella, superiore, dello spirito rimaneva oggetto di scoperta.
E' invece dal Novecento che si è iniziato a rendersi conto dell'impossibilità del sogno husserliano di una scienza filosofica rigorosa e oggettiva e della importanza del linguaggio all'interno della disputa sulla verità: già Wittgenstein aveva ridotto molti dei paradossi e dei problemi fino ad allora suscitati dalla filosofia ad una semplice "confusione di vocabolari" dovuta a proprietà diverse dei linguaggi usati per parlare di quei problemi.
Potrei sintetizzare l'atteggiamento sviluppatosi attorno a questo tema con una frase di Gianni Vattimo: "nel Novecento la filosofia è passata dall'idea di verità a quella di carità: il valore supremo non è la verità come la descrizione oggettiva, il valore supremo è l'accordo con gli altri".
Di fatto, si potrebbe dire che se il concetto di verità ha assunto una connotazione "dialogica", allora paradossalmente la base dell'oggettività è diventata l'intersoggettività, l'incontro di volontà singole, la distruzione del concetto di utopia.
Credo che il discorso prettamente linguistico possa portare, dunque, ad un'evoluzione politica, in cui le società siano tentate da una deresponsabilizzazione verso la metafisica e il trascendente, e da qualunque spazio in cui si stabilizzino concetti "sovraesistenziali" precostituiti, per dedicarsi unicamente al rapporto e all'accordo con i propri simili, ripudiando la violenza come il peggior misfatto dell'uomo, senza appellarsi pero' ad una bontà universale, comune naturalmente a tutti gli uomini, ma cercando piuttosto di immedesimarsi nella vita degli altri, accettando le credenze contingenti del proprio tempo.