*Dispacci semiseri sulla kultu®a del terzo_millennio

"L'intellettuale è un signore che fa rilegare i libri che non ha letto" [Leo Longanesi]

sabato 25 aprile 2009

E' vero o non è vero? Mettiamoci d'accordo

Premessa: il titolo di questo articolo riprende l'incipit di un altro articolo, pubblicato su "La Stampa" da Gianni Vattimo in occasione della scomparsa di Richard Rorty. Per dovere di cronaca, tutto qui.
Ascoltare alla televisione Piergiorgio Odifreddi sostenere con convinzione la maggior veracità di un'operazione matematica rispetto all'esistenza di Dio mi suggerisce tre cose: la prima è che la legge di C.M. Cipolla secondo cui "sistematicamente ognuno di noi sottovaluta il numero di stupidi in circolazione" è sempre più attuale, ancor più se si tratta di programmi televisivi. La seconda è che, giunti a questo punto, un'ondata di trash-pop alla Grande Fratello non puo' che essere desiderabile. La terza, invece, è più uno stimolo, quello di ricominciare a scrivere su questo blog, partendo proprio da un tema a me caro: che cosa sia la verità e che rapporti essa abbia con le nostre asserzioni.
Innanzi tutto mi preme sottolineare questo fatto: i discorsi simil-odifreddiani sono ottime occasioni di marketing personale quanto momenti perfetti per dare aria ai denti. La questione da lui sollevata non solo non passa neanche dall'anticamera del mio cervello, ma se mai dovessi avere un abbaglio ne deriverei subito la sua totale inutilità.

Ma che cosa si intende per verità? o, meglio ancora, ha senso porci questa domanda?
Credo che attualmente la migliore soluzione per parlare di questi argomenti sia partire da una concezione deflazionistica (o minimalistica) che abbia come base quello che è passato alla storia come "schema di devirgolettazione" per cui

"p è vera" sse p

ovvero

"la neve è bianca" è vero sse "la neve è bianca"

Molti hanno interpretato questa disuguaglianza come l'ennesima conferma di una relazione di corrispondenza tra la realtà e una proposizione che la descrive, il cui valore di verità è funzione della verifica di uno stato del mondo: il fatto che questo schema non ci spieghi nulla sulla natura della verità ha indotto molti ad arricchirlo con modifiche che si sono rivelate, nel migliore dei casi, superflue.
Per esempio, per cercare di enfatizzare la malsana idea della corrispondenza potremmo dire:

"x è F" è vero sse esiste uno stato j: jRx e F è soddisfatto da x

In questo modo abbiamo introdotto uno "stato" (del mondo), per esempio un oggetto, che faccia da tramite tra la proposizione x e la sua proprietà V (es. il colore)

A ben pensarci però, in accordo l'obiezione avanzata da Strawson, il predicato di verità, cioè quella proprietà [V: x è V sse x], può essere visto anche come pura ridondanza, riducendo il valore di verità di una proposizione ad una mera proprietà linguistica costruita con e non dopo il linguaggio, proprio come Lucia è un nome proprio femminile. Questa interpretazione non spiega pero' ciò che ci ha spinti ad utilizzare la parola "vero" se di fatto essa non è di alcuna utilità: a questo proposito Horwich avanza un'ipotesi che mi sembra più sensata del "riduzionistico" Wittgenstein; l'utilizzo della locuzione "vero", e quindi del predicato stesso di verità, è utile quando non c'è la possibilità di usare quello che definisce come "quantificatore sostituzionale". Per esempio:

posto p=[E=mc^2], vale il principio deflazionista "p è vera" sse p.

Ma sostituendo, tramite il linguaggio italiano, p con

p'=[la legge di Einstein], allora esso non vale più in quanto p' da sola, senza un predicato di verità, non costituisce alcuna proposizione a valore enunciativo.
Potremmo allora definire il processo di quantificazione sostituzionale con il sussistere di un stato x e di una proposizione ipotetica, tali che la se p' è "la proposizione che x" allora essa puo' soddisfare il principio minimalista. O, ancora meglio, più genericamente, quantificazione come qualsiasi sostituzione grammaticale italiana di un enunciato dichiarativo al posto di

in <...p...> che dia luogo ad una verità.


In altre parole, ridurre il valore del predicato di verità ai minimi termini, pur non escludendo in toto il suo utilizzo, mi sembra uno dei tanti corretti tentativi di affermare la distinzione tra "mondo" e verità, tra il sussistere di stati e i fatti: affermare che il mondo è "là fuori" significa semplicemente riconoscere che certe cose sussistono a prescindere dagli stati mentali dell'uomo. Affermare invece, che la verità non è là fuori implica il prendere atto che dove non ci sono proposizioni non c'è verità, che le proposizioni sono unità del linguaggio umano e che, in quanto tali, sono creazioni umane.
Non bisogna dunque confondere il fatto che noi prendiamo il mondo a giustificazione dei nostri enunciati, con l'idea che il mondo stesso si spezzetti autonomamente in piccoli enunciati chiamati fatti.
Con ciò non voglio negare che non si possa prendere per vere certe proposizioni o credenze, ma che sia del tutto inutile interrogarsi se esse abbiano un riscontro nel mondo antecedente alla pratica linguistica oppure se semplicemente ci venga comodo usarle.
Il progresso della tecnica e il proliferare delle scienze applicate, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, ha oscurato quei tentativi incompleti di Hegel e Kant di scindere il legame di corrispondenza tra conoscenza e raggiungimento del Vero: nel capovolgere la dicotomia soggetto-oggetto affermando che era l'uomo (e quindi la realtà dei fatti) ad essere l'oggetto del pensiero, e non viceversa, Hegel aveva intravisto questa concezione, ma ne applicava i fondamenti solo nell'immanente, rimanendo fedele ad una concezione di spirito sovraterrestre e trascendente, provvisto di una natura propria e imperscrutabile, se non tramite una super-disciplina chiamata filosofia. Allo stesso modo Kant aveva gerarchizzato le verità, ritenendo il mondo della scienza empirica come qualcosa di costruito, definito all'interno di una cornice spazio-temporale aprioristica, ma continuando ad attribuire una natura "nascosta" all'animo e alla mente.
Insomma la metà inferiore, quella del mondo scientifico/empirico, era oggetto di costruzione, quella, superiore, dello spirito rimaneva oggetto di scoperta.
E' invece dal Novecento che si è iniziato a rendersi conto dell'impossibilità del sogno husserliano di una scienza filosofica rigorosa e oggettiva e della importanza del linguaggio all'interno della disputa sulla verità: già Wittgenstein aveva ridotto molti dei paradossi e dei problemi fino ad allora suscitati dalla filosofia ad una semplice "confusione di vocabolari" dovuta a proprietà diverse dei linguaggi usati per parlare di quei problemi.
Potrei sintetizzare l'atteggiamento sviluppatosi attorno a questo tema con una frase di Gianni Vattimo: "nel Novecento la filosofia è passata dall'idea di verità a quella di carità: il valore supremo non è la verità come la descrizione oggettiva, il valore supremo è l'accordo con gli altri".
Di fatto, si potrebbe dire che se il concetto di verità ha assunto una connotazione "dialogica", allora paradossalmente la base dell'oggettività è diventata l'intersoggettività, l'incontro di volontà singole, la distruzione del concetto di utopia.
Credo che il discorso prettamente linguistico possa portare, dunque, ad un'evoluzione politica, in cui le società siano tentate da una deresponsabilizzazione verso la metafisica e il trascendente, e da qualunque spazio in cui si stabilizzino concetti "sovraesistenziali" precostituiti, per dedicarsi unicamente al rapporto e all'accordo con i propri simili, ripudiando la violenza come il peggior misfatto dell'uomo, senza appellarsi pero' ad una bontà universale, comune naturalmente a tutti gli uomini, ma cercando piuttosto di immedesimarsi nella vita degli altri, accettando le credenze contingenti del proprio tempo.

giovedì 6 novembre 2008

Interferenze apparenti

6 novembre 2008:

"Barack Obama? Giovane, bello e abbronzato" [Silvio Berlusconi]

"Mai un presidente del Consiglio era caduto così in basso, lasciandosi andare a battute d'avanspettacolo che tradiscono un razzismo strisciante" [Massimo Donadi, IDV]

8 ottobre 2006, riferendosi al senatore De Gregorio, intervistato da Simona Ventura: 

"Un perfetto giudeo" [Antonio di Pietro, IDV]

martedì 21 ottobre 2008

Iudico ergo damno

Con sincero rammarico, assisto all'infittimento della lista dei dannati ab eterno che Marco Travaglio sciorinerà prossimamente nel suo spazio di Anno Zero. Eccone un'anteprima:

- Cesare Previti
- Marcello Dell'Utri
- Clemente Mastella
- Lino Jannuzzi
- io
...
..
.

mercoledì 8 ottobre 2008

Inferenze Pop

Dopo la crisi dei subprime, le borse a picco, Tremonti e la definitiva sconfitta del libero mercato, assistiamo, questa volta non senza una pruriginosa maliziosità, alla crisi del monopolio culturale "desinistra".

Dopo le frasi di Cesare, che poi furon di Cicerone, e poi nuovamente di Cesare, adesso il muro di Berlino cadde nel '85. Da Vladimirio Guadagno, Cayo Cochinos, Honduras.


sabato 17 maggio 2008

Postilla alla sezione Enigmistica di Repubblica, ovvero Assioma del Giorno

Il fatto che Marco Travaglio si definisca con l'illogica espressione "liberale conservatore" tradisce la sua estrema ignoranza in fatto di liberalismo.

Il fatto che Marco Travaglio voti Antonio Di Pietro conferma la tesi precedente sul piano dell'appartenenza ideologica, e la estende ai restanti campi, sul piano dell'ignoranza.


venerdì 16 maggio 2008

Giochino del giorno

All'insaputa degli assidui lettori e con immenso sdegno del fondatore Eugenio Scalfari, Repubblica apre le porte a tutte le casalinghe d'Italia, con una nuova frizzante sezione dedicata all'Enigmistica di stagione. Qui, in esclusiva, un'anteprima.

[TROVA l'ERRORE]
ndr. Esercizio consigliato solo a chi possiede una spiccata immaginazione: se proprio risultasse difficile trovare il senso delle singole affermazioni o la logica che le lega, si ricordi che in questo Paese c'è da sempre spazio per tutti.

"Sono un liberale conservatore, ho votato Antonio Di Pietro"
(Marco Travaglio, Roma 16 maggio 2008)

giovedì 1 maggio 2008

L'ultima dei Vischini

Lascerò stare i discorsi sull'illiberalità di questo provvedimento, sulla palese violazione della minima privacy che è garantita dallo Stato Italiano, che obbliga un'impresa a compilare 343 fogli per garantire la privacy di chiunque stia nel proprio raggio di azione, ma che permette in trenta secondi di vedere i redditi di (quasi) tutti i contribuenti. Lascerò perdere anche le accuse di favoreggiamento mafioso di Beppe Grillo, e di lì tutta l'antipolitica che ne verrà fuori. Sul fatto che adesso le domande sorgono spontanee: e perchè non anche le cartelle cliniche? in fondo la sanità è pubblica, perchè non rendere conto alla società delle nostre malattie? e le telecamere in camera da letto? Tanto, come per chi non evade, non c'è nulla da nascondere, che l'italiano faccia del sesso è pacifico, no? E, last but not least, quali telefilm guarda il nostro caro Don Vincenzo, visto che negli Stati Uniti dati come questi sono consultabili solo in posti abilitati e super protetti, e se sei beccato a divulgarli rischi fino a 11 anni di galera, 600000$ di multa e una citazione in giudizio per danni? Ecco, non mi dilungherò sulle principali critiche, che per altro condivido, che sono state mosse all'ultima follia prima della, spero definitiva, uscita di scena di VV. Voglio tentare un'analisi un po' diversa, cerando e sperando di cogliere il sostrato culturale e ideologico che ha portato a questa ultima diavoleria. Ma adesso inizio davvero. Promesso.
Mi dispiace contraddire chi innescherà, a giorni, la caccia filo-berlusconiana agli spiriti sovietici della penisola. Lo dico: Vincenzo Visco non è un comunista. E lo ripeto, VV non è un comunista. Forse lo è stato e forse si è accorto della sua miseria. E da allora ha studiato, e imparato molto bene come funziona il nostro Paese: da allora cerca in tutti i modi di sfruttare in modo indecente ciò che di peggiore esiste, amplificando appena può tutti quelli che un liberale annoterebbe come "i difetti dell'italia". Il suo sogno non è tanto quello di un'Eden mistico e meraviglioso, dove denaro, economia e consumismo non ci siano. Da questo punto di vista, prendendo a prestito un concetto di Sergio Ricossa, è un perfettista anomalo. Il suo sogno sarebbe quello di fermare il tempo agli anni '70, quando tutti erano dipendenti di grandi/enormi imprese semi statali e paralizzate, tutti col sostituto d'imposta, in modo che lo stato onnipotente con la sua burocrazia ramificata possa avere il controllo di tutto e di tutti. E questa trovata delle dichiarazioni in rete, dopo il decreto dei 2065€ di multa a chi non denuncia gli evasori (Dlgs 471/97, Art. 11), poteva essere una buon propaganda per la sua concezione di stato onnipresente, adesso aiutato anche dai concittadini a "scovare" e denunciare il millantato nemico evasore. Perchè l'italiano, secondo Don Vincenzo, oltre ad aver letto troppo Guicciardini, è afflitto da una tara genetica e deve essere "educato" a pagare le tasse, anche dai suoi concittadini. Tasse che, seguendo la sua logica, non sono neutre (o peggio invasive), ma "correttive", "pedagogiche", "bellissime". Una malattia, quella dell'italiano, congenita, che lo spinge ad essere intraprendente soprattutto nel piccolo, a cercare di innovare, di dare qualcosa di diverso alla società e a rompere inevitabilmente il suo disegno. VV è un costruttivista modernissimo, anzi post-moderno. E' un ingegnere sociale, che crede che lo Stato venga prima dei cittadini, che lo Stato, attraverso le politiche fiscali e sociali, debba indirizzare "dall'alto" lo sviluppo di un Paese. Anche col rischio (più o meno voluto) di scatenare animaleschi attriti e invidie sociali, nonchè inviti alla delazione fiscale. E con questa oscenità, ha voluto cercare consensi alla propria policy anche tra la gente, in modo da estendere il controllo sociale anche alla base ("dal basso" oltre che "dall'alto"), e generare un sistema circolare di gogna che alimentasse la solita riprovazione nei confronti di chi, pare, non dichiari tutto quel che guadagna. E, politicamente parlando, chi a sinistra ha sempre gridato al vituperato populismo berlusconiano, ora deve fare i conti con una demagogia di segno opposto, che non farà che affossare ancora di più il progetto di una sinistra moderna e riempire le urne del centro-destra. Il Partito Democratico, e WV dovrebbe capirlo bene, ha perso le elezioni di brutto, grazie a due anni in cui Vincenzo Visco e Tommaso Padoa Schioppa hanno reso più impopolare che mai l'operato del centro-sinistra, oscurando le serie liberalizzazioni promosse da Bersani. Ora la stessa coppia spiana la strada ai consensi di Silvio Berlusconi. 
Come a dire che, in fondo, Walter Veltroni a calci nel culo dovrebbe prendere sempre le stesse persone.