"L'intellettuale è un signore che fa rilegare i libri che non ha letto" [Leo Longanesi]

lunedì 21 gennaio 2008

L'uomo nuovo

Nonostante l’ambiguita’ concettuale che pervade quasi tutto l’operato del grande autore tedesco, e’ ormai assodato che l’interpretazione nazificante del pensiero nietzscheano e’ un po’ forzata, senz’altro basata su un’analisi superficiale di un falso storico. Che Nietzsche non sia il teorico del nazismo lo do quindi per assodato, se non altro in questa mia interpretazione.

Proprio con questa premessa, voglio sviluppare il discorso in un modo differente, cercando di creare un percorso interpretativo che tenga ben conto del contesto storico in cui Nietzsche vive, per superare i luoghi comuni e allo stesso tempo per cercare, se esistono, fondi di verità.

Hegel, Marx, poi Nietzsche: il filo rosso passa necessariamente per questi tre autori. Differenti in tutto, tranne che, a mio giudizio, nel concepire l’analisi esistenziale dell’sistema-uomo in relazione con gli altri e nel tono profetico delle loro opere.

Ci si chiede allora perchè una filosofia all’insegna dell’eguaglianza sociale e della pace possa esser sfociata in una delle più sanguinarie dittature del ‘900 e come le profezie visionarie di Zarathustra abbiano potuto esser interpretate da un regime di violenza e razzismo. Parto da lontano.

Marx compì, col senno di poi, un profondo errore di valutazione: egli di fatto, con la caduta tendenziale del saggio di profitto e la sua necessaria risoluzione nella rivoluzione, sottovaluta la capacità evolutiva del capitalismo e il suo dinamismo fondante.

Per contro, esalta la capacità di evolversi della futura società comunista. Nei “Manoscritti economico-filosofici” prevede due versioni della futura società e che nella “Critica al programma di Gotha” identifica con la prima e la seconda fase della evoluzione del comunismo.

Una prima, violenta nel suo nascere, che ha ancora i germi della precedente borghese-capitalista e che si identifica in un egualitarismo sociale che non tiene conto dei “bisogni e delle capacità degli individui”, con lo stato unico imprenditore e la società unico datore di lavoro. Solamente nella seconda si approda ad un Eden di pace e serenità, ove ognuno vive in relazione alle proprie necessità. Senza classi, senza magistratura, senza proprietà, senza Stato.

Di tutto ciò non si è mai visto niente, gli esperimenti russi (e non solo) non hanno fatto che mal riprodurre la prima fase. Il delirio di onnipotenza di leader egocentrici e autocratici non ha permesso quell’evoluzione che Marx vedeva come naturale, e che, sempre col senno di poi, adesso ci pare se non altro ingenua.

Ingenua ma comprensibile, per il fatto che Marx non vede nel materialismo storico l’operato dell’individuo, ma di una intera classe, una vera mobilitazione di massa. Non è la storia dell’uno, ma quella dei molti. Crede nell’evoluzione del comunismo e nella paralisi socio-economica del capitalismo, ma sempre frutti di una mobilitazione di classe.

Invece nell’incarnazione dello spirito nella storia, nello stato etico, nell’assenza della diplomazia e nella legittimazione della guerra come strumento diplomatico, sta tutta la forza del pensiero di Hegel. Uno stato totalitario non può prescindere dall’attuare quei punti, non può vedere per sua natura l’importanza dell’individuo, ma solo la valenza e la necessità della struttura sociale. La teofania hegeliana si risolve in una lucida e provvidenziale visione di un nuovo spirito e la sua conseguente manifestazione nel corso delle epoche.

Se Hegel è allora teorico dell’assolutismo politico molto più lucido di Nieztsche, non si può però incorrere in un classico errore di prospettiva storica.

Hegel non pensava di certo alle brutture che hanno generato i regimi del ‘900, come pure Marx. Affermarlo sarebbe antistorico e ingeneroso; entrambi nella loro sottile riflessione auspicano un futuro di benessere e di novità.

Ecco, il punto cruciale della mia riflessione.

Hegel uno spirito nuovo, incarnato in una nuova umanità, Marx una nuova società, Nietzsche un uomo nuovo, ubermensch, rinnovato e capace di “andare oltre”.

Ecco il punto che li accomuna: una profetica e mitizzata speranza di un qualcosa di nuovo, rinnovato rispetto a prima. Un’ansia di rivoluzione interiore, struggente, immediata, al confine tra legittimo e illegittimo, ma sempre in cerca di legittimazione e di un’idenità.

Una profezia che fu interpretata dai fenomeni politici in dinamiche assai complicate, vagheggiato dal fascismo, accarezzato e poi applicato dal nazismo e messo in pratica dall’Unione Sovietica sin da subito. Bastò un mese a Lenin dopo la sua nomina a presidente del Consiglio dei commissari del Popolo, a ordinare una categorica e sistematica rieducazione degli oppositori politici. Ne parlò anche Ernesto Guevara nel campo da lui organizzato a Guanaha.

Anche Gabriele D’Annunzio e Benito Mussolini fecero più volte riferimento ad una nuova massa, Adolf Hitler ad una nuova razza. Proclami tardo positivistici, nazionalisti, impregnati di quell’ardore etico e da quel attaccamento mistico alle proprie radici storiche e patrie. Gobinau e Chamberlain costituirono le loro premesse.

Sono società che per loro natura vogliono creare quello che non c’è, dar sfogo alla propria utopia negata, educando, cambiando, invadendo la vita del cittadino, che conta solo nella misura in cui è parte della struttura statale. Non viene tenuto conto del suo individuale sviluppo, delle sue meravigliose tensioni alla realizzazione. Esso deve esser prodotto del proprio tempo, della società che lo costruisce tramite un’ingegneria sociale che toglie libertà su libertà.

Lo Stato politicamente inteso non è e non deve restare una premessa, non deve sovrastare il destino umano, semmai deve costituirsi come forma per il suo dispiegarsi. Il cittadino va inserito nel contesto come parte attiva, avente diritti fondamentali garantiti e non imposti forzatamente da un regime che, quindi, non diventa altro che un fenomeno proiettivo e alienante. L’uomo hegeliano proietta nello stato un traguardo individuale e finisce per esserne vittima. L’uomo marxista riflette la volontà di rivincita e di realizzazione tipicamente borghese nell’attivismo di un’intera classe.  Nietzsche è forse l’unico che prende in esame l’individuo, prospetta l’avvento di un “oltre-uomo” ricco di valori classici che salvi la società dall’incubo attuale, offra al mondo un’umanità rinnovata, nuova nella sua totalità e nel suo approccio totalizzante con la realtà. Totalizzante proprio nell’eroico rifiuto di veli celanti, di “false speranze e menzogne consolatrici”. Un’accettazione universale della vita che fa l’eco alla moglie joyciana di Ulisse, che rivela una visione desacralizzante dell’attualità e che propone il Ricordo del passato, in una concezione della vita, della storia e del futuro molto suggestiva, fatta di ritorni e di immortalità.

E’ una paralisi destabilizzante, un ostacolo immobilizzante quello che si frappone nello sviluppo dialettico dello spirito nieztscheano, proprio come “la neve sopra tutti i vivi e i morti”, che impedisce la rivincita dell’ubermensch, l’epopea cavalleresca di un uomo diverso dal precedente, fiero, orgoglioso, nuovo in tutto e per tutto.

Un nuovo Enea e un nuovo Ulisse che simboleggiano un nuovo mondo, la brama salvifica di un poeta-filosofo che ha amato la vita come nessuno.  

Ecco, forse è proprio quest’irrefrenabile desiderio di novità ad accomunare questi tre pensatori. Un minimo comune denominatore che ha contribuito, anche in indubbie diversità, alla concretizzazione storica delle loro teorie e, in parte, alla loro mortificazione.

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