"L'intellettuale è un signore che fa rilegare i libri che non ha letto" [Leo Longanesi]

lunedì 28 gennaio 2008

Comunque vada, ha vinto Walter Veltroni

La caduta al Senato di questo governo non è stata una semplice replica dell'alternanza anticipata tipica della seconda repubblica, ma ha segnato la fine di un sogno, quello dell'Ulivo, il gran calderone di popolo che univa riformisti, conservatori, dirigisti, liberali (un po' per finta), rossi, verdi e bianchi.
Ha segnato la fine del prodismo, di un'agonia parlamentarizzata fino all'ultimo, derivante un habitus che pervade tutto il parlamento italiano, apoteosi del non-governo, dell'instabilità, delle cene collettive, dei pranzi collettivi e dei collettivi e basta.
Silvio Berlusconi era partito bene, voleva tagliare i ponti col passato, con alleati vecchi, improbabili. E invece no, a quanto pare no. Continuerà con chi in politica economica è più d'accordo con Rifondazione che con i mezzi-liberisti del suo partito. Con chi l'ha già fatto cadere una volta, con chi aveva giurato di non stare più.
E allora spiana il campo a chi invece ha deciso di correre da solo, una volta tanto. Di tagliare davvero i ponti con il prodismo, che aveva i numeri per le elezioni ma non quelli per governare. Chi, forse, si è accorto che la sinistra è stata mortificata e ridicolizzata per decenni, monopolizzata da una cultura cattocomunista anacronistica e fallimentare di cui l'ormai ex-premier era emblema perfetto. Costellata da mantra sociali classisti, fermenti belligeranti, cialtroni ideologizzati e salottieri. Appesantita da un passato ingombrante, di statalismo, assistenzialismo e lotta ideologica, gli stessi che hanno contraddistinto, eccetto qualche sprazio di schizzofrenia liberista, il ministero di Don Vincenzo. Visco, naturalmente. Quella cultura che non si accorgeva di perpetuare la logica delle lobby e delle corporazioni, dei privilegi e della casta proprio con gli strumenti che aveva messo in piedi.
No, il Piddì non è un partito liberale, e non credo lo sarà. Come non lo sono i partiti dell'ala di centro-destra. Michele Salvati si metta il cuore in pace, ma non si stupisca più di tanto. Ci vuole tempo per far passare certe cose, l'Italia che conta non è ancora pronta a leggere Hayek, forse nemmeno per sostenere (e applicare) le tesi di un Giavazzi qualunque.
Però ha avuto il coraggio, pur nel noioso ed evanescente vecchiume politico di chi lo compone, di darsi una nuova linea, lontana dai patti e dalle concessioni ad una sinistra radicale, vecchia e ricattatoria, che avevano immobilizzato e imbarazzato i riformisti del governo. O, meglio ancora, di non darsi una linea, di riscoprire un'identità più indipendente dalle restrizioni formali di destra e sinistra, che in Italia imbavagliano, giudicano e colpevolizzano. Alle convention W. ha parlato (finalmente) di mobilità sociale, di riforme e flessibilità. Del sogno americano, di Kennedy e dei bambini in difficoltà, di albe, campanili e partite di pallone. Un uomo di una bontà imbattibile.
Il Partito Democratico avvia ora la sua missione storica, una nuova idea di partito di centro-sinistra, a vocazione maggioritaria. Con l'imbarazzo (e un po' di prurito) di dover dire grazie a quel governo che le contingenze storiche e la necessità di un cambiamento manifestato proprio dal suo leader, hanno relegato alla storia.
Se vincerà, dubito, forse avrà inizio una nuova stagione della politica italiana, in attesa di un altro Cavaliere. Ma se perderà nessuno potrà dirgli niente. Comunque vada, ha vinto Walter Veltroni.

lunedì 21 gennaio 2008

Walterissima

Finirà così. Finirà che tra un bambino africano e uno cinese, tra piazze, albe e campanili, alle prossime politiche ci toccherà dover scegliere tra un Berlusconi e l’altro.

Ci toccheranno finali raccapriccianti sulle note di Forza Italia, pieni di bontà e immaginazione, e a scuola si dovranno imparare a memoria non più i versi di Dante, ma quelli sacri di Alessandro Baricco. Tutti diverranno umanamente solidali ed disumanamente ecologisti, avrà inizio l’epopea romanzata del pubblico e del sociale, con tanto di dedica inaugurale di Walter Veltroni, da poco asceso al soglio pontificio. Le veline entreranno in politica e Roberto Benigni verrà scomunicato per incitamento alla reazione.

Le memorie fiumane ci riporteranno al matrimonio tra uomini e tra donne, e a solenni funerali per cani e gatti, col beneplacito di Stefano Gabbana. Sarà la tragicomica di Vittorio Feltri, l’apoteosi del berlusconismo.

Comunicazione di servizio

Finirà così. Finirà che Gino Strada dopo l’ “infamia evitabile” voterà la Casa delle Libertà, e con lui arriveranno Rifondazione, i disobbedienti e Caruso. Sarà tutto un magna-magna, e finalmente Filippo Facci troverà un compagno per i suoi dispacci anti-americani. Sarà un governo di grande coalizione dove fanti, colonnelli e preti avranno come capo un Cavaliere, e gli operai si adegueranno. Mai più si utilizzerà la linea dura, sarà la dittatura democratica e parlamentare, tra porcate, girotondi e pentimenti, con buona pace del Craxi di turno.

Sarà il matrimonio definitivo tra i poteri forti e la politica, con tanto di rito ufficiale celebrato tra quei di Via Solferino. Senza furbetti, s’intende.

Sarà l’apoteosi del politically correct e dei salotti buoni, che saranno animati dalle burle feroci di Vittorio Feltri, Paolo Mieli ed Ezio Mauro, ormai indecisi solo più sui caratteri del titolo.

Finirà che Giorgio Bocca potrà finalmente rivisitare senza timori la sua militanza alla corte del Duce, pentito come da copione, ma consolato, alla bisogna, da Gianni Alemanno, compagno di errori in gioventù.

Marco Travaglio rimarrà miseramente disoccupato, ma troverà in fretta, tra un aborto e l’altro, un posto in Rai.

Sarà invece la tragedia dei duri e puri, dei Diliberti e dei Minà che però, per diritto costituzionale, abbandoneranno bandiere, sigari e magliette per prendere posto in sala.

Avrà inizio la vera commedia all’italiana, ma il menù verrà trasfigurato seguendo il canovaccio dell’Opera dei Pupi: Carlo Magno, Bradimante e Luca di Montezemolo, già pronto per la replica del venerdì. Quella senza Cavalieri.


Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus

Un esametro diventato celebre per la sua collocazione, da parte di un filosofo, in un romanzo filosofico, con un linguaggio filosofico, quasi a emendamento per una generazione futura. Un giallo, e insieme romanzo storico, che si può leggere su tre piani diversi a seconda della sensibilità di chi legge. Un libro per tutti e per nessuno annoterebbe la penna pittoresca di Friedrich Nietzsche.

Io, in tutta franchezza, eretico per gloria terrena, spererei di poter tenere qualcosa in più di un nome nudo, qualcosa di meglio di una maschera che posso plasmare a mio piacere senza troppi sforzi. Ma questa è presunzione e vanagloria umana. Roba vecchia. Adesso si parla di relativismo.

Non credo che il relativismo sia una cattiva teoria, principalmente perchè non è una teoria. Come è possibile che un sistema gnoseologico, che indaga come un arbitro sulle nostre facoltà conoscitive sia una teoria. E’ e deve essere piuttosto un sistema superiore, una sovrastruttura che si manifesta nella misura in cui è applicata e perde totalmente di significato se rimane appunto teoria.

Esso deve essere arbitro imparziale del nostro modo di guardare alla vita, alla conoscenza, alla società. Non può per sua natura giocare la partita.

Se si fa di esso un giocatore, si finisce per ipostatizzarlo, renderlo acriticamente un dogma inamovibile. Ecco perchè dico che di relativisti non ne ho mai conosciuti: ho conosciuto preti del relativismo, deificanti il dogma del relativismo, ammettendo la assenza di una verità rivelata e deificando scientisticamente una moltitudine assoluta di piccole verità.

Quel relativismo finto e travisato è il risultato del fallimento dell’antropologia moderna. Il risultato di una perdita di identità valoriale, di un’alienazione a se stessi. E tutto ancora infarcito di morale, di belle parole: tant’è che un dogmatico di questa portata è definito, o si definisce umile, ma in realtà sostiene quanto gli altri la propria teoria, e guai a toccargliela. Pecca, se questo è peccato, quanto tutti gli altri.

E' il caso di molti pensatori attuali i quali di fatto escludono dall'ermeneutica relativista ogni altro tipo di speculazione ritenendola del tutto improduttiva, incapace di dare empiriche dimostrazioni della realtà. Ma è forse possibile, è forse consono al sistema possibilista-relativista, la prioritaria eclisse di un sistema gnoseologico in favore di un altro seppur critico e possibilista esso stesso?

Quando dico che il relativismo non è un a teoria e non può essere una teoria, voglio proprio spiegare questo: esso semmai è una premessa, che pone al vaglio le altre teorie e al contempo se stessa, riconoscendo la possibile fecondità di altri sistemi conoscitivi diversi da sè. L'attitudine critica del relativismo non può prescindere da una criticità verso se stessa. Negare il relativismo è il compito del relativismo. Il "tutto è relativo" è una banalizzazione che non può esistere concettualmente, perchè andrebbe a dar vita ad una perfetta tautologia. Se proprio dobbiamo trovare uno slogan meglio dire "Molto può essere relativo, molto altro può non esserlo", ma chi ci assicura la partizione? La distribuzione è omogenea oppure no?

L'esclusione scientista comtiana, per esempio, non emerge nel suo evolversi, ma si manifesta solo alla fine del processo conoscitivo perchè, pur dando vita a ulteriori approfondimenti, esclude, secondo le ipotesi, altri possibili risultati, considerati infecondi e/o oziosi. Così è la tendenza anche dei nuovi scienziati o intellettuali post relativisti, tanto da far sembrare la nostra epoca una reinassaince positivista.

Il bersaglio preferito da queste intellettualità è certamente la Chiesa. Gianni Vattimo ha affermato che se un Dio esiste, certamente è un relativista. Anzi è l'unico relativista possibile. D'altronde dal punto da cui ci osserva non può che esserlo, è l’unico che può davvero svolgere la funzione di arbitro che ho precedentemente descritto; e la dottrina stessa del cristianesimo è nella sua essenza primaria, cioè nella dimostrazione dell'esistenza divina, relativista. "Quando due o più di voi sono riuniti in mio nome, ecco io sarò con loro": si svuota di fatto molta della forza del Vero. Non ci dice dove è o chi è, ma ci indica la strada per trovarlo. Nè l'esistenza di Dio, come dicevo, è un articolo di fede. Quindi sono d’accordo con Antiseri: relativista perchè cristiano, cristiano perchè relativista.

Gianni Vattimo vede nella Caritas cristiana il massimo esempio di relativismo che quindi elude per la prima volta le tematiche gnoseologiche e in perfetto accordo con l'idea di sistema sociale, entra a far parte della quotidianità collettiva come un valore che fino ad ora mai si era pensato in quest'ottica. La carità, cioè come diceva Dante, la capacità di adeguare la propria volontà a quella dell'altro è infatti il miglior esempio di applicazione di una weltanshauung relativista.

Insomma, per farla breve: bisogna relativizzare il relativismo. Cercando di contestualizzare e storicizzare la Verità, accettare una verità storica condivisa: non diciamo allora di esserci messi d’accordo quando abbiamo trovato la Verità, ma piuttosto di aver trovato la Verità quando ci siamo messi d’accordo.  Un verità momentanea probabilmente, figlia del nostro periodo storico, figlia dell’uomo di adesso, del nostro uomo.

Attualmente, credo che, nella sua formula originale, non sia una sistema filosofico applicabile. Questo per la brama umana di tener per sè una scoperta, di sostenere una teoria in vista di un traguardo che forse non esiste, di vivere secondo certezze, di ricercarle nella società e sui libri. Di porre esse come baluardo e luce del proprio cammino di formazione, della propria realizzazione. Qualcosa a cui ci si può davvero appoggiare, una fede, un credo che allievi le incessanti domande kierkegaardiane su cosa ci facciamo in questo mondo. Forse la nostra ricerca continua di universalità vuole essere quella prova del nove che altrimenti non avremmo: un qualcosa che ci rassicuri dopo una scelta, un segnale per un bivio.

Il tentativo adesso, di fronte a nessuna soluzione soddisfacente, è quello di concedere attraverso una estensione concettuale, una base etica uguale per tutti, che, di fatto, eluda l'universo relativo e si ponga, sempre in armonia con esso, come universalismo antropologico globalmente condivisibile e difensore di diritti inalienabili. Ma fare tutto ciò non è altro che attenersi alla regola prima, all’essenza prima del relativismo: quella della possibilità di negare se stesso. Quel che appare la via più semplice è un ritorno, senza ulteriori aggiunte, alla sua naturale essenza.

Questa è la mia visione del universo relativo: alla fatidica domanda se io sia un relativista, aggiro l’ostacolo che mi pone la ragione. Per quanto ne so certe teorie mi convincono più di altre, tutto qua.


L'uomo nuovo

Nonostante l’ambiguita’ concettuale che pervade quasi tutto l’operato del grande autore tedesco, e’ ormai assodato che l’interpretazione nazificante del pensiero nietzscheano e’ un po’ forzata, senz’altro basata su un’analisi superficiale di un falso storico. Che Nietzsche non sia il teorico del nazismo lo do quindi per assodato, se non altro in questa mia interpretazione.

Proprio con questa premessa, voglio sviluppare il discorso in un modo differente, cercando di creare un percorso interpretativo che tenga ben conto del contesto storico in cui Nietzsche vive, per superare i luoghi comuni e allo stesso tempo per cercare, se esistono, fondi di verità.

Hegel, Marx, poi Nietzsche: il filo rosso passa necessariamente per questi tre autori. Differenti in tutto, tranne che, a mio giudizio, nel concepire l’analisi esistenziale dell’sistema-uomo in relazione con gli altri e nel tono profetico delle loro opere.

Ci si chiede allora perchè una filosofia all’insegna dell’eguaglianza sociale e della pace possa esser sfociata in una delle più sanguinarie dittature del ‘900 e come le profezie visionarie di Zarathustra abbiano potuto esser interpretate da un regime di violenza e razzismo. Parto da lontano.

Marx compì, col senno di poi, un profondo errore di valutazione: egli di fatto, con la caduta tendenziale del saggio di profitto e la sua necessaria risoluzione nella rivoluzione, sottovaluta la capacità evolutiva del capitalismo e il suo dinamismo fondante.

Per contro, esalta la capacità di evolversi della futura società comunista. Nei “Manoscritti economico-filosofici” prevede due versioni della futura società e che nella “Critica al programma di Gotha” identifica con la prima e la seconda fase della evoluzione del comunismo.

Una prima, violenta nel suo nascere, che ha ancora i germi della precedente borghese-capitalista e che si identifica in un egualitarismo sociale che non tiene conto dei “bisogni e delle capacità degli individui”, con lo stato unico imprenditore e la società unico datore di lavoro. Solamente nella seconda si approda ad un Eden di pace e serenità, ove ognuno vive in relazione alle proprie necessità. Senza classi, senza magistratura, senza proprietà, senza Stato.

Di tutto ciò non si è mai visto niente, gli esperimenti russi (e non solo) non hanno fatto che mal riprodurre la prima fase. Il delirio di onnipotenza di leader egocentrici e autocratici non ha permesso quell’evoluzione che Marx vedeva come naturale, e che, sempre col senno di poi, adesso ci pare se non altro ingenua.

Ingenua ma comprensibile, per il fatto che Marx non vede nel materialismo storico l’operato dell’individuo, ma di una intera classe, una vera mobilitazione di massa. Non è la storia dell’uno, ma quella dei molti. Crede nell’evoluzione del comunismo e nella paralisi socio-economica del capitalismo, ma sempre frutti di una mobilitazione di classe.

Invece nell’incarnazione dello spirito nella storia, nello stato etico, nell’assenza della diplomazia e nella legittimazione della guerra come strumento diplomatico, sta tutta la forza del pensiero di Hegel. Uno stato totalitario non può prescindere dall’attuare quei punti, non può vedere per sua natura l’importanza dell’individuo, ma solo la valenza e la necessità della struttura sociale. La teofania hegeliana si risolve in una lucida e provvidenziale visione di un nuovo spirito e la sua conseguente manifestazione nel corso delle epoche.

Se Hegel è allora teorico dell’assolutismo politico molto più lucido di Nieztsche, non si può però incorrere in un classico errore di prospettiva storica.

Hegel non pensava di certo alle brutture che hanno generato i regimi del ‘900, come pure Marx. Affermarlo sarebbe antistorico e ingeneroso; entrambi nella loro sottile riflessione auspicano un futuro di benessere e di novità.

Ecco, il punto cruciale della mia riflessione.

Hegel uno spirito nuovo, incarnato in una nuova umanità, Marx una nuova società, Nietzsche un uomo nuovo, ubermensch, rinnovato e capace di “andare oltre”.

Ecco il punto che li accomuna: una profetica e mitizzata speranza di un qualcosa di nuovo, rinnovato rispetto a prima. Un’ansia di rivoluzione interiore, struggente, immediata, al confine tra legittimo e illegittimo, ma sempre in cerca di legittimazione e di un’idenità.

Una profezia che fu interpretata dai fenomeni politici in dinamiche assai complicate, vagheggiato dal fascismo, accarezzato e poi applicato dal nazismo e messo in pratica dall’Unione Sovietica sin da subito. Bastò un mese a Lenin dopo la sua nomina a presidente del Consiglio dei commissari del Popolo, a ordinare una categorica e sistematica rieducazione degli oppositori politici. Ne parlò anche Ernesto Guevara nel campo da lui organizzato a Guanaha.

Anche Gabriele D’Annunzio e Benito Mussolini fecero più volte riferimento ad una nuova massa, Adolf Hitler ad una nuova razza. Proclami tardo positivistici, nazionalisti, impregnati di quell’ardore etico e da quel attaccamento mistico alle proprie radici storiche e patrie. Gobinau e Chamberlain costituirono le loro premesse.

Sono società che per loro natura vogliono creare quello che non c’è, dar sfogo alla propria utopia negata, educando, cambiando, invadendo la vita del cittadino, che conta solo nella misura in cui è parte della struttura statale. Non viene tenuto conto del suo individuale sviluppo, delle sue meravigliose tensioni alla realizzazione. Esso deve esser prodotto del proprio tempo, della società che lo costruisce tramite un’ingegneria sociale che toglie libertà su libertà.

Lo Stato politicamente inteso non è e non deve restare una premessa, non deve sovrastare il destino umano, semmai deve costituirsi come forma per il suo dispiegarsi. Il cittadino va inserito nel contesto come parte attiva, avente diritti fondamentali garantiti e non imposti forzatamente da un regime che, quindi, non diventa altro che un fenomeno proiettivo e alienante. L’uomo hegeliano proietta nello stato un traguardo individuale e finisce per esserne vittima. L’uomo marxista riflette la volontà di rivincita e di realizzazione tipicamente borghese nell’attivismo di un’intera classe.  Nietzsche è forse l’unico che prende in esame l’individuo, prospetta l’avvento di un “oltre-uomo” ricco di valori classici che salvi la società dall’incubo attuale, offra al mondo un’umanità rinnovata, nuova nella sua totalità e nel suo approccio totalizzante con la realtà. Totalizzante proprio nell’eroico rifiuto di veli celanti, di “false speranze e menzogne consolatrici”. Un’accettazione universale della vita che fa l’eco alla moglie joyciana di Ulisse, che rivela una visione desacralizzante dell’attualità e che propone il Ricordo del passato, in una concezione della vita, della storia e del futuro molto suggestiva, fatta di ritorni e di immortalità.

E’ una paralisi destabilizzante, un ostacolo immobilizzante quello che si frappone nello sviluppo dialettico dello spirito nieztscheano, proprio come “la neve sopra tutti i vivi e i morti”, che impedisce la rivincita dell’ubermensch, l’epopea cavalleresca di un uomo diverso dal precedente, fiero, orgoglioso, nuovo in tutto e per tutto.

Un nuovo Enea e un nuovo Ulisse che simboleggiano un nuovo mondo, la brama salvifica di un poeta-filosofo che ha amato la vita come nessuno.  

Ecco, forse è proprio quest’irrefrenabile desiderio di novità ad accomunare questi tre pensatori. Un minimo comune denominatore che ha contribuito, anche in indubbie diversità, alla concretizzazione storica delle loro teorie e, in parte, alla loro mortificazione.

Pensieri d'autunno


Come un albero spoglio da una finestra, il sole.

Maestosa debole bellezza.

Così un rivo senza anima, rami affetti da mali incurabili.

 

Parole senza rimedio

L'orologio degli Dei



Il ticchettio senza tempo dell’orologio degli Dei.

Guardo fuori, dove tutto è divenire.

Continuo

Frenetico

Senza traccia

Uguaglia e annichilisce. In un mondo che troppo in fretta muta la sua pelle.

Azione e pensiero, binomio mutilo perchè tempo non c’è.

Uomo e Tutto, binomio insensato.

Lo spavento insperato di un occhio attento, vigile in un posto infinito.