"L'intellettuale è un signore che fa rilegare i libri che non ha letto" [Leo Longanesi]

giovedì 6 novembre 2008

Interferenze apparenti

6 novembre 2008:

"Barack Obama? Giovane, bello e abbronzato" [Silvio Berlusconi]

"Mai un presidente del Consiglio era caduto così in basso, lasciandosi andare a battute d'avanspettacolo che tradiscono un razzismo strisciante" [Massimo Donadi, IDV]

8 ottobre 2006, riferendosi al senatore De Gregorio, intervistato da Simona Ventura: 

"Un perfetto giudeo" [Antonio di Pietro, IDV]

martedì 21 ottobre 2008

Iudico ergo damno

Con sincero rammarico, assisto all'infittimento della lista dei dannati ab eterno che Marco Travaglio sciorinerà prossimamente nel suo spazio di Anno Zero. Eccone un'anteprima:

- Cesare Previti
- Marcello Dell'Utri
- Clemente Mastella
- Lino Jannuzzi
- io
...
..
.

mercoledì 8 ottobre 2008

Inferenze Pop

Dopo la crisi dei subprime, le borse a picco, Tremonti e la definitiva sconfitta del libero mercato, assistiamo, questa volta non senza una pruriginosa maliziosità, alla crisi del monopolio culturale "desinistra".

Dopo le frasi di Cesare, che poi furon di Cicerone, e poi nuovamente di Cesare, adesso il muro di Berlino cadde nel '85. Da Vladimirio Guadagno, Cayo Cochinos, Honduras.


sabato 17 maggio 2008

Postilla alla sezione Enigmistica di Repubblica, ovvero Assioma del Giorno

Il fatto che Marco Travaglio si definisca con l'illogica espressione "liberale conservatore" tradisce la sua estrema ignoranza in fatto di liberalismo.

Il fatto che Marco Travaglio voti Antonio Di Pietro conferma la tesi precedente sul piano dell'appartenenza ideologica, e la estende ai restanti campi, sul piano dell'ignoranza.


venerdì 16 maggio 2008

Giochino del giorno

All'insaputa degli assidui lettori e con immenso sdegno del fondatore Eugenio Scalfari, Repubblica apre le porte a tutte le casalinghe d'Italia, con una nuova frizzante sezione dedicata all'Enigmistica di stagione. Qui, in esclusiva, un'anteprima.

[TROVA l'ERRORE]
ndr. Esercizio consigliato solo a chi possiede una spiccata immaginazione: se proprio risultasse difficile trovare il senso delle singole affermazioni o la logica che le lega, si ricordi che in questo Paese c'è da sempre spazio per tutti.

"Sono un liberale conservatore, ho votato Antonio Di Pietro"
(Marco Travaglio, Roma 16 maggio 2008)

giovedì 1 maggio 2008

L'ultima dei Vischini

Lascerò stare i discorsi sull'illiberalità di questo provvedimento, sulla palese violazione della minima privacy che è garantita dallo Stato Italiano, che obbliga un'impresa a compilare 343 fogli per garantire la privacy di chiunque stia nel proprio raggio di azione, ma che permette in trenta secondi di vedere i redditi di (quasi) tutti i contribuenti. Lascerò perdere anche le accuse di favoreggiamento mafioso di Beppe Grillo, e di lì tutta l'antipolitica che ne verrà fuori. Sul fatto che adesso le domande sorgono spontanee: e perchè non anche le cartelle cliniche? in fondo la sanità è pubblica, perchè non rendere conto alla società delle nostre malattie? e le telecamere in camera da letto? Tanto, come per chi non evade, non c'è nulla da nascondere, che l'italiano faccia del sesso è pacifico, no? E, last but not least, quali telefilm guarda il nostro caro Don Vincenzo, visto che negli Stati Uniti dati come questi sono consultabili solo in posti abilitati e super protetti, e se sei beccato a divulgarli rischi fino a 11 anni di galera, 600000$ di multa e una citazione in giudizio per danni? Ecco, non mi dilungherò sulle principali critiche, che per altro condivido, che sono state mosse all'ultima follia prima della, spero definitiva, uscita di scena di VV. Voglio tentare un'analisi un po' diversa, cerando e sperando di cogliere il sostrato culturale e ideologico che ha portato a questa ultima diavoleria. Ma adesso inizio davvero. Promesso.
Mi dispiace contraddire chi innescherà, a giorni, la caccia filo-berlusconiana agli spiriti sovietici della penisola. Lo dico: Vincenzo Visco non è un comunista. E lo ripeto, VV non è un comunista. Forse lo è stato e forse si è accorto della sua miseria. E da allora ha studiato, e imparato molto bene come funziona il nostro Paese: da allora cerca in tutti i modi di sfruttare in modo indecente ciò che di peggiore esiste, amplificando appena può tutti quelli che un liberale annoterebbe come "i difetti dell'italia". Il suo sogno non è tanto quello di un'Eden mistico e meraviglioso, dove denaro, economia e consumismo non ci siano. Da questo punto di vista, prendendo a prestito un concetto di Sergio Ricossa, è un perfettista anomalo. Il suo sogno sarebbe quello di fermare il tempo agli anni '70, quando tutti erano dipendenti di grandi/enormi imprese semi statali e paralizzate, tutti col sostituto d'imposta, in modo che lo stato onnipotente con la sua burocrazia ramificata possa avere il controllo di tutto e di tutti. E questa trovata delle dichiarazioni in rete, dopo il decreto dei 2065€ di multa a chi non denuncia gli evasori (Dlgs 471/97, Art. 11), poteva essere una buon propaganda per la sua concezione di stato onnipresente, adesso aiutato anche dai concittadini a "scovare" e denunciare il millantato nemico evasore. Perchè l'italiano, secondo Don Vincenzo, oltre ad aver letto troppo Guicciardini, è afflitto da una tara genetica e deve essere "educato" a pagare le tasse, anche dai suoi concittadini. Tasse che, seguendo la sua logica, non sono neutre (o peggio invasive), ma "correttive", "pedagogiche", "bellissime". Una malattia, quella dell'italiano, congenita, che lo spinge ad essere intraprendente soprattutto nel piccolo, a cercare di innovare, di dare qualcosa di diverso alla società e a rompere inevitabilmente il suo disegno. VV è un costruttivista modernissimo, anzi post-moderno. E' un ingegnere sociale, che crede che lo Stato venga prima dei cittadini, che lo Stato, attraverso le politiche fiscali e sociali, debba indirizzare "dall'alto" lo sviluppo di un Paese. Anche col rischio (più o meno voluto) di scatenare animaleschi attriti e invidie sociali, nonchè inviti alla delazione fiscale. E con questa oscenità, ha voluto cercare consensi alla propria policy anche tra la gente, in modo da estendere il controllo sociale anche alla base ("dal basso" oltre che "dall'alto"), e generare un sistema circolare di gogna che alimentasse la solita riprovazione nei confronti di chi, pare, non dichiari tutto quel che guadagna. E, politicamente parlando, chi a sinistra ha sempre gridato al vituperato populismo berlusconiano, ora deve fare i conti con una demagogia di segno opposto, che non farà che affossare ancora di più il progetto di una sinistra moderna e riempire le urne del centro-destra. Il Partito Democratico, e WV dovrebbe capirlo bene, ha perso le elezioni di brutto, grazie a due anni in cui Vincenzo Visco e Tommaso Padoa Schioppa hanno reso più impopolare che mai l'operato del centro-sinistra, oscurando le serie liberalizzazioni promosse da Bersani. Ora la stessa coppia spiana la strada ai consensi di Silvio Berlusconi. 
Come a dire che, in fondo, Walter Veltroni a calci nel culo dovrebbe prendere sempre le stesse persone.

giovedì 3 aprile 2008

Andrea's Version

"Dedicato a quelli che, Dio mio, il governatore dello stato di New York andava a puttane. E ci andava in privato. A quelli che un inglese, mio Dio, perfino un inglese andava a puttane. In privato, anche lui. E cinque al colpo, ne imbarcava. E tutte bonissime. E si faceva spidocchiare, e frustare di brutto sul culo finché, sempre privatamente, “accidenti se mi piace, signorine, accidenti come mi piace”, rantolava. Che grande scandalo. Dedicato a quelli che, Dio mio, un ministro degli Esteri finlandese di nome Kanerva, dicasi Nerva, ebbe la faccia tosta di accompagnarsi alla signorina Tukiainen, e dicasi Tuki, la quale la mignotta faceva. Privatamente. E poi, mai contento, le spedì centinaia di messaggi. Tutti quanti privati. Per dirle: “Mannaggia quanto mi è piaciuto, cara la mia Tuki, mannaggia quanto mi è piaciuto”. Ecco. E nessuna signorina, in privato, si lamentò dell’accaduto. E noi qui, in cinquanta milioni di italiani, a sodomizzare pubblicamente i Mastella." 

martedì 1 aprile 2008

Memento gaudere semper

Quelli che la-sinistra-non-esiste-più. Quelli che i-soldi-non-sono-tutto, e poi non-consiglio-certo-annunci-matrimoniali. Quelli che Anna Falchi va bene, la Vento pure, ma Ayda Yespica no, per carità. Quelli che la lista "possibili mariti" è esclusivamente a discrezione delle signorine, specie se precarie. E quelli che, sì, un fondo di verità c'è, ma si tratta sempre di oltraggi inammissibili. E che si dovrebbe vergognare profondamente, a prendersela con chi non può difendersi. E ricordarsi che i primi-saranno-gli ultimi, che la dannazione cadrà su di loro, sia essa l'inferno dantesco oppure l'imposta di successione, a seconda che il Dio in questione sia bianco o rosso. Quelli che sì, Mondadori pubblica tutti, non cambia una virgola dei libri scomodi, ma Silvio Berlusconi in fondo in fondo rimane sempre un padrone, che sfotte-i-dipendenti. E che li sfrutta, nelle piantagioni messicane di Milano Due, dove la tecnologia aliena gli uomini e li rende mezzi di fini vili e mendaci.

In tutto questo catto-sovietismo d'antan, ben folle è quegli che a rischio de la vita onor si merca. In sintesi, onor trionfante a Fausto Bertinotti che liquida la questione dicendo che mai si immischierebbe in una decisione amorosa del proprio figlio.

Quando si dice la sinistra è gioco. 

lunedì 10 marzo 2008

Funambolici geniacci

Ho deciso: non scriverò nulla riguardo alle esternazioni nostalgicamente romantiche di Giuseppe Ciarrapico, nè alle fustigazioni morali impartitegli da Piero Fassino e Anna Finocchiaro. S'è già troppo parlato di cosa fu e cosa non fu, della commedia dell'odio e dell'amore, dei delitti e delle pene. Non senza un rassegnato rammarico, credo sia fondamentalmente sterile tornare a ripetere le stesse cose che un tempo fecero inorridire la nuova patria liberale e democratica: non ci resterà che gustare il sapore pittoresco di quegli equilibrismi di realpolitik che ancora alimentano i funambolismi verbali dei più sinceri tra i bugiardi.

sabato 16 febbraio 2008

Il gatto e la volpe

"Pagare meno per pagare tutti", "pagare meno, pagare tutti". Soltanto un "per" di differenza, tra gli slogan di Francesco Storace e WV.
(Quasi) a dire che ormai, dopo anni di lotta ideologica, che bisogna abbassare le tasse lo hanno capito proprio tutti. E forse anche che la vecchia massima "pagar tutti, per pagare meno", sciorinata da chi riteneva (e ritiene ancora) le tasse e l'ingerenza statale "cose bellissime" è fondamentalmente tautologica.
Da destra a sinistra: con sfumature diverse, forse con obiettivi diversi; da chi vuole il sostegno della ridistribuzione sociale, chi preferirebbe la crescita e l'incentivo all'investimento. Poco importa, adesso il tema si fa meno scottante, inevitabilmente noioso. Tutti in fondo la pensano allo stesso modo. E questo probabilmente la dice lunga su una situazione politico-economica, che riesce a mettere d'accordo tutti.
Ma forse, no. Non sono solo le disgrazie di un Paese bloccato ad accumunare chi generalmente la pensa in modo differente. Basterebbe leggere un libro di De Felice, o di Aron, per capire le (indiscutibili) analogie tra pensieri apparentemente molto differenti, o meglio, differenziati dalle etichette pregiudizievoli e stringenti di "destra" e "sinistra". Non diciamo sciocchezze: le folkloristiche (e metarazziste) opinioni sui gay-pedofili, sui Dico, sulla famiglia e i valori della tradizione che caratterizzano la forte identità di un partito come "La Destra" lasciano il tempo che trovano, seppur specchio di una concezione vecchia, ritrita, che fa anche un po' pena. Ma allo stesso tempo sono talmente lontane dalle istituzioni più o meno democratiche italiane, che risultano più inoffensive che altro. Sono le propagande gridate di chi fondamentalmente non ha altro di più accattivante da proporre, se non un rigurgito di anti-politica riesumato dal collante di nazional-popolare che tiene (e terrà sempre) insieme il corpo elettorale italiano.
Eppure su queste differenze la sinistra radicale si scaglia veemente, grida al razzismo, al fascismo, al totalitarismo. Grida convulse, giustificate, piazze gremite. Inutile, tutto inutile, semplicemente per logica elettorale. E invece si rifiuta di vedere un aspetto fondamentale, cioè che su quello che conta veramente, sul piano dell'azione di governo, sulla politica economica e la concezione dello Stato, sono pappa e ciccia, come due vecchi compagni di corso. Sì, loro due: Francesco Storace e Fausto Bertinotti.
Ho letto attentamente, pur non essendomi interrogato in materia per più di quaranta secondi, il programma dettagliato de "La Destra".
Compaiono come il prezzemolo assiomi "contro lo smantellamento liberista", come se la dottrina politico-economica che ha reso grande la Gran Bretagna, fosse retta da una pura logica di riduzionismo o deflazionismo fine a se stesso. Più avanti, si nota un titolone "la Destra per la comunità, contro l'individualismo", con relative allusioni ad un "rinnvato Stato sociale", tant'è che a un certo punto mi pareva di leggere il verbale dell'ultima riunione dei "fighetti comunisti" di M. Boldrin. Tra le aspre critiche alle riforme, per altro insufficienti, operate dal centro-sinista alla Costituzione compare una proposta di reintroduzione della "clausola dell'interesse nazionale", irresponsabilmente soppressa, affinchè lo Stato, simbolo di Autorità, coercizione e consenso, possa intervenire per tutelare i superiori interessi della Nazione qualora venissero compromessi dagli egoismi locali.
Il paradosso è palese e sta nel fatto che i grandi difensori della Carta del '46 capeggiati da Oscar Luigi Scalfaro, che si battono quotidianamente per la soppressione di quelli che chiamano "attentati alla Costituzione", ovvero gli interventi desiderati da chi vorrebbe meno Stato e più individuo, sono sempre stati di sinistra. E come mai ora che hanno trovato un alleato perfetto non sbandierano in piazza l'idea di Storace che vuole semplicemente rinnovare e riavvalorare l'intento dirigista della Costituente, tanto amato dagli italiani, incentivando ulteriormente quello che sarebbe l'ennesimo vero attentato alla libertà del singolo sottomesso al "bene della comunità"?
Come mai Fausto Bertinotti, e come lui migliaia di altri politici e intellettuali catto-comunisti (perchè a questa idea ha contribuito tantissimo anche il Cristianesimo), che hanno sempre tacciato il liberismo e l'iniziativa individuale come la via verso il "vil danaro" e il "peccato dell'economia", e hanno sempre promosso uno Stato che assistesse, regolasse, indirizzasse la vita economica del singolo non appoggiano l'idea anacronistica dell'ex di AN? Perchè poi, in Parlamento, è questo che conta, sono questi i pensieri fondanti che si riversano sulle politiche fiscali, sul ruolo della proprietà, sulla concezione della concorrenza e del mercato del lavoro.
Proseguo la lettura del documento e mi imbatto nell'idea di meritocrazia che, a detta dei sottoscrittori, ha da sempre contraddistinto, la Destra italiana (basterebbe leggere "il Posto" di Vitaliano Brancati, per capire che questa è una scempiaggine incredibile) e che dovrebbe entrare anche nell'impiego pubblico, cercando di attuare piani di promozione e di assunzione volti a mutare l'immagine di assentismo, improduttività e clientelismo tipici dell'impiego statale italiano. Tutto giusto, tutte parole condivisibili, forse anche per un comunista convinto. Eppure, ciò che servirebbe e che davvero sta a cuore a chi ne capisce qualcosa di politica economica non compare: non si fa menzione di quelle che sono tacciate come "opere smantellatrici", cioè quei tagli di impieghi e di spesa pubblica che davvero servirebbero per rilanciare il paese: e questo perchè la Destra italiana, così come gran parte della sinistra, fa leva sullo zoccolo duro del pubblico, necessario alle elezioni, e importante nel perseguimento, o se vogliamo, nell'ostacolamento delle iniziative liberiste che offrirebbero ai privati incentivi, stimoli, occasioni.
E allora io propongo che FS e FB si fondino e diano vita ad una nuova formazione, "La rifondazione della Destra sociale", o qualcosa di simile, l'importante che compaia l'aggettivo sociale per segnare bene le distanze dall'egoismo atomistico del liberismo. Oppure, magari, cosa più auspicabile, si smetta di dividere il mondo in destra e sinistra e si incominci ad analizzare le posizioni politiche e non quelle parlamentari.
Pubblico e Stato suono due miti tutti italiani, gli sconfitti di un'Italia che non rischia, si adagia spesso, non premia nè incentiva. E' un paese bloccato, dove se sei dentro ce la fai, altrimenti no. E rimani a guardare il siparietto del gatto e la volpe, divisi dalla Storia degli uomini, da confini netti e inderogabili. Lontani per tradizione, ma uniti da avversari comuni. La destra "sociale" ama dirigere, vuole uno stato forte, ordinato, lontano da logiche di concorrenza che premiano e al contempo bastonano. La sinistra, in primis quella più radicale, vuole che "anche i ricchi piangano". Come la Bibbia, che condanna Adamo all'abbandono del paradiso terrestre e all'eterna permanenza nel mondo del "materiale" in cui la necessità economica del lavoro soppianta fini più nobili e veraci, la sinistra italiana desidera che la corruzione dell'attività economica possa essere nobilitata da uno sguardo al sociale, alla collettività, allo Stato. Quelli che in fondo il denaro non è tutto, che il regno del perfettismo reale equidistribuito venga retto dai vecchi schiavi del capitale, e non più animato dai "sospiri della creatura oppressa".
Entrambe queste concezioni sono pervase da una tendenza manifesta di livellamento verso il basso, dal convincimento che il gioco a cui partecipano sia a somma zero, ma forse anche da un senso di sobrietà e pudore che ormai ci appare fuori moda nella società del superfluo e dell'immagine.
Poco importa, i mezzi utilizzati sono gli stessi, fin dai tempi di Platone. Sempre gli stessi.

mercoledì 13 febbraio 2008

Perchè non sono un conservatore

Il fatto che la corrente liberale o libertaria sia sempre stata accomunata, per ragioni di logistica politica o di semplice opportunismo, all'universo politico della Destra ha traviato fortemente la dimensione partitica italiana, tanto da inserire questa dimensione filosofica così sfaccettata e complessa all'interno di una logica di appartenenza ristretta e mortificante.
Le categorie illuministiche di riformismo e conservatorismo hanno inevitabilmente contagiato questa visione, dimenticando la necessaria contestualizzazione e storicizzazione di questi due atteggiamenti: tradizionalmente agli esponenti dei partiti della Destra è stata affiancata un'anima conservatrice, che, in un modo, è entrata a far parte della sua definizione.
Se però questa etichetta, seppur generalista, ha ancora uno sfondo di verità, mi meraviglia molto il fatto che per anni, nonostante il reale fallimento comunista, e quello più teorico del socialismo reale, la Sinistra abbia mantenuto la sua aurea di riformismo incondizionato, calato da un atteggiamento di superiorità morale e culturale mai messa in discussione. Il fatto che per anni si sia pensato che il liberalismo faccia parte integrante dell'universo politico della Destra non può che portare ad un inevitabile rivisitazione dei due termini, e alla constatazione della loro parziale capacità di descrivere una realtà poliedrica.
Scrive Hayek, "In un'epoca in cui gran parte dei movimenti progressisti sono favorevoli ad ulteriori attentati alla libertà individuale, facilmente chi ha cara la libertà consuma tutte le proprie energie opponendovisi. Molto spesso, in questo, si trova dalla stessa parte di coloro che sono avversi a qualsiasi cambiamento".
Insomma, su questo piano i conservatori sono stati buoni alleati per la causa liberale: ciò nonostante, sul piano di fondo, le differenze si manifestano in modo determinante.
Il liberalismo e la sua forma più integrale e profonda del libertarismo, sono per natura fiduciosi nelle capacità dell'individuo, promuovono l'eliminazione di ogni ostacolo allo sviluppo dell'individuo, sia esso posto in una logica di mercato o nel più circoscritto ambito della propria realizzazione personale, in modo da facilitarne l'evoluzione spontanea.
Sul continente europeo, il panorama liberale ha sempre sentito dell'influsso della Rivoluzione Francese, che ha portato di fatto ad una considerazione dello Stato come concessore di un ordine sociale predefinito, in cui la dimensione interpretativa della conoscenza era appannaggio di pochi, aspetto che deriva dal fatto che la sua dispersione avrebbe facilmente reso velleitario ogni tentativo di istituire un "ordine supremo".
Se l'economia è la scienza che studia l'allocazione di risorse scarse (Robbins), allora uno stato che impronta la propria azione sulla pianificazione decide a prescindere il sistema di collocamento delle risorse con cui gli individui raggiungono i propri fini e soddisfano i propri bisogni. Di fatto l'autorità costituita, determinando arbitrariamente i mezzi economici, indirizza anche i fini di ciascun individuo, che spesso vanno oltre la natura economica da cui sono originati. E se le finalità di ciascun individuo, come accade, sono dettate da valori condivisi, e a loro volta, sono capaci di influenzarne la formazione, chiunque detenga questo esclusivo controllo sulle masse, decide anche quali siano i valori da perseguire e quali no, costituendone una gerarchia statica e conservatrice, da cui si generano inevitabilmente caste e privilegi.
Il controllo economico, desiderato tanto dai conservatori per opporsi ai mutamenti del progresso, quanto dai socialisti per la realizzazione del loro Eden sociale, non può essere quindi scisso dalla totalità delle libere scelte di ciascuno, perchè non ne è solamente un aspetto fra tanti, ma è l'aspetto che influenza maggiormente la completa realizzazione individuale. E' stato questo errore di prospettiva, che vedeva la sfera economica come un aspetto a se stante la globalità dell'individuo, a portare alla proliferazione dei sistemi di economia mista tipici del XX secolo.
L'attenzione delle politiche economiche si è rivolta non tanto verso la crescita e l'incremento di produttività (e conseguentemente degli standard di vita), ma piuttosto verso una logica redistributiva, di prelievo e offerta statale. L'idea che l'utilità marginale (e la correlata percezione del valore) potesse essere misurata in assoluto e non solamente in relazione ad altre dimensioni affini, ha portato di fatto alla convinzione che i benefici in termini di consumi e di crescita ottenuti tramite il trasferimento di ricchezza tra i contribuenti, fossero maggiori dei disincentivi all'investimento gravanti sui grandi patrimoni. Tutto ciò nella certezza che si potesse misurare con esattezza il valore di 1$ trasferito, unicamente in relazione alla totalità delle sostanze del beneficiario, arrivando quindi ad un risultato nettamente positivo, proprio come 1/10 è maggiore di 1/30.
Ma se l'utilità di un bene al raggiungimento di un determinato fine non è quantificabile matematicamente, dal momento che dipende da un insieme di giudizi di valore dettati dal confronto con altri beni, è possibile solamente stilare una classifica di priorità in cui l'individuo, come consumatore, preferisce A rispetto a B, e B rispetto a C. Ne consegue l'impossibilità di misurare, sotto il profilo quantitativo, l'utilità marginale dei fattori presenti sul mercato, e la legittimazione di un'analisi puramente qualitativa: partendo da questo presupposto, risulta ancor più fallace il tentativo di instaurare un confronto tra le utilità di persone differenti.
Sul piano più strettamente etico, questa matrice costruttivista nega il fondamento dell'"evoluzione spontanea" dell'individuo, e ogni possibilità di una "Grande Società" in cui sia impossibile dettare una linea di interpretazione comune.
Si può dire che il conservatore una volta perseguito il proprio fine, sia anch'esso un governo fatto dai migliori, o da tutti i più saggi, il problema che si pone è più quello di limitare il loro potere reale che di restringere il campo di azione degli apparati amministrativi messi a loro disposizione.
E' il primato dello Stato sull'individuo, che non può agire se non all'interno di un'unità di azione prestabilita: in altre parole, il primato della politica sulla società civile.

lunedì 28 gennaio 2008

Comunque vada, ha vinto Walter Veltroni

La caduta al Senato di questo governo non è stata una semplice replica dell'alternanza anticipata tipica della seconda repubblica, ma ha segnato la fine di un sogno, quello dell'Ulivo, il gran calderone di popolo che univa riformisti, conservatori, dirigisti, liberali (un po' per finta), rossi, verdi e bianchi.
Ha segnato la fine del prodismo, di un'agonia parlamentarizzata fino all'ultimo, derivante un habitus che pervade tutto il parlamento italiano, apoteosi del non-governo, dell'instabilità, delle cene collettive, dei pranzi collettivi e dei collettivi e basta.
Silvio Berlusconi era partito bene, voleva tagliare i ponti col passato, con alleati vecchi, improbabili. E invece no, a quanto pare no. Continuerà con chi in politica economica è più d'accordo con Rifondazione che con i mezzi-liberisti del suo partito. Con chi l'ha già fatto cadere una volta, con chi aveva giurato di non stare più.
E allora spiana il campo a chi invece ha deciso di correre da solo, una volta tanto. Di tagliare davvero i ponti con il prodismo, che aveva i numeri per le elezioni ma non quelli per governare. Chi, forse, si è accorto che la sinistra è stata mortificata e ridicolizzata per decenni, monopolizzata da una cultura cattocomunista anacronistica e fallimentare di cui l'ormai ex-premier era emblema perfetto. Costellata da mantra sociali classisti, fermenti belligeranti, cialtroni ideologizzati e salottieri. Appesantita da un passato ingombrante, di statalismo, assistenzialismo e lotta ideologica, gli stessi che hanno contraddistinto, eccetto qualche sprazio di schizzofrenia liberista, il ministero di Don Vincenzo. Visco, naturalmente. Quella cultura che non si accorgeva di perpetuare la logica delle lobby e delle corporazioni, dei privilegi e della casta proprio con gli strumenti che aveva messo in piedi.
No, il Piddì non è un partito liberale, e non credo lo sarà. Come non lo sono i partiti dell'ala di centro-destra. Michele Salvati si metta il cuore in pace, ma non si stupisca più di tanto. Ci vuole tempo per far passare certe cose, l'Italia che conta non è ancora pronta a leggere Hayek, forse nemmeno per sostenere (e applicare) le tesi di un Giavazzi qualunque.
Però ha avuto il coraggio, pur nel noioso ed evanescente vecchiume politico di chi lo compone, di darsi una nuova linea, lontana dai patti e dalle concessioni ad una sinistra radicale, vecchia e ricattatoria, che avevano immobilizzato e imbarazzato i riformisti del governo. O, meglio ancora, di non darsi una linea, di riscoprire un'identità più indipendente dalle restrizioni formali di destra e sinistra, che in Italia imbavagliano, giudicano e colpevolizzano. Alle convention W. ha parlato (finalmente) di mobilità sociale, di riforme e flessibilità. Del sogno americano, di Kennedy e dei bambini in difficoltà, di albe, campanili e partite di pallone. Un uomo di una bontà imbattibile.
Il Partito Democratico avvia ora la sua missione storica, una nuova idea di partito di centro-sinistra, a vocazione maggioritaria. Con l'imbarazzo (e un po' di prurito) di dover dire grazie a quel governo che le contingenze storiche e la necessità di un cambiamento manifestato proprio dal suo leader, hanno relegato alla storia.
Se vincerà, dubito, forse avrà inizio una nuova stagione della politica italiana, in attesa di un altro Cavaliere. Ma se perderà nessuno potrà dirgli niente. Comunque vada, ha vinto Walter Veltroni.

lunedì 21 gennaio 2008

Walterissima

Finirà così. Finirà che tra un bambino africano e uno cinese, tra piazze, albe e campanili, alle prossime politiche ci toccherà dover scegliere tra un Berlusconi e l’altro.

Ci toccheranno finali raccapriccianti sulle note di Forza Italia, pieni di bontà e immaginazione, e a scuola si dovranno imparare a memoria non più i versi di Dante, ma quelli sacri di Alessandro Baricco. Tutti diverranno umanamente solidali ed disumanamente ecologisti, avrà inizio l’epopea romanzata del pubblico e del sociale, con tanto di dedica inaugurale di Walter Veltroni, da poco asceso al soglio pontificio. Le veline entreranno in politica e Roberto Benigni verrà scomunicato per incitamento alla reazione.

Le memorie fiumane ci riporteranno al matrimonio tra uomini e tra donne, e a solenni funerali per cani e gatti, col beneplacito di Stefano Gabbana. Sarà la tragicomica di Vittorio Feltri, l’apoteosi del berlusconismo.

Comunicazione di servizio

Finirà così. Finirà che Gino Strada dopo l’ “infamia evitabile” voterà la Casa delle Libertà, e con lui arriveranno Rifondazione, i disobbedienti e Caruso. Sarà tutto un magna-magna, e finalmente Filippo Facci troverà un compagno per i suoi dispacci anti-americani. Sarà un governo di grande coalizione dove fanti, colonnelli e preti avranno come capo un Cavaliere, e gli operai si adegueranno. Mai più si utilizzerà la linea dura, sarà la dittatura democratica e parlamentare, tra porcate, girotondi e pentimenti, con buona pace del Craxi di turno.

Sarà il matrimonio definitivo tra i poteri forti e la politica, con tanto di rito ufficiale celebrato tra quei di Via Solferino. Senza furbetti, s’intende.

Sarà l’apoteosi del politically correct e dei salotti buoni, che saranno animati dalle burle feroci di Vittorio Feltri, Paolo Mieli ed Ezio Mauro, ormai indecisi solo più sui caratteri del titolo.

Finirà che Giorgio Bocca potrà finalmente rivisitare senza timori la sua militanza alla corte del Duce, pentito come da copione, ma consolato, alla bisogna, da Gianni Alemanno, compagno di errori in gioventù.

Marco Travaglio rimarrà miseramente disoccupato, ma troverà in fretta, tra un aborto e l’altro, un posto in Rai.

Sarà invece la tragedia dei duri e puri, dei Diliberti e dei Minà che però, per diritto costituzionale, abbandoneranno bandiere, sigari e magliette per prendere posto in sala.

Avrà inizio la vera commedia all’italiana, ma il menù verrà trasfigurato seguendo il canovaccio dell’Opera dei Pupi: Carlo Magno, Bradimante e Luca di Montezemolo, già pronto per la replica del venerdì. Quella senza Cavalieri.


Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus

Un esametro diventato celebre per la sua collocazione, da parte di un filosofo, in un romanzo filosofico, con un linguaggio filosofico, quasi a emendamento per una generazione futura. Un giallo, e insieme romanzo storico, che si può leggere su tre piani diversi a seconda della sensibilità di chi legge. Un libro per tutti e per nessuno annoterebbe la penna pittoresca di Friedrich Nietzsche.

Io, in tutta franchezza, eretico per gloria terrena, spererei di poter tenere qualcosa in più di un nome nudo, qualcosa di meglio di una maschera che posso plasmare a mio piacere senza troppi sforzi. Ma questa è presunzione e vanagloria umana. Roba vecchia. Adesso si parla di relativismo.

Non credo che il relativismo sia una cattiva teoria, principalmente perchè non è una teoria. Come è possibile che un sistema gnoseologico, che indaga come un arbitro sulle nostre facoltà conoscitive sia una teoria. E’ e deve essere piuttosto un sistema superiore, una sovrastruttura che si manifesta nella misura in cui è applicata e perde totalmente di significato se rimane appunto teoria.

Esso deve essere arbitro imparziale del nostro modo di guardare alla vita, alla conoscenza, alla società. Non può per sua natura giocare la partita.

Se si fa di esso un giocatore, si finisce per ipostatizzarlo, renderlo acriticamente un dogma inamovibile. Ecco perchè dico che di relativisti non ne ho mai conosciuti: ho conosciuto preti del relativismo, deificanti il dogma del relativismo, ammettendo la assenza di una verità rivelata e deificando scientisticamente una moltitudine assoluta di piccole verità.

Quel relativismo finto e travisato è il risultato del fallimento dell’antropologia moderna. Il risultato di una perdita di identità valoriale, di un’alienazione a se stessi. E tutto ancora infarcito di morale, di belle parole: tant’è che un dogmatico di questa portata è definito, o si definisce umile, ma in realtà sostiene quanto gli altri la propria teoria, e guai a toccargliela. Pecca, se questo è peccato, quanto tutti gli altri.

E' il caso di molti pensatori attuali i quali di fatto escludono dall'ermeneutica relativista ogni altro tipo di speculazione ritenendola del tutto improduttiva, incapace di dare empiriche dimostrazioni della realtà. Ma è forse possibile, è forse consono al sistema possibilista-relativista, la prioritaria eclisse di un sistema gnoseologico in favore di un altro seppur critico e possibilista esso stesso?

Quando dico che il relativismo non è un a teoria e non può essere una teoria, voglio proprio spiegare questo: esso semmai è una premessa, che pone al vaglio le altre teorie e al contempo se stessa, riconoscendo la possibile fecondità di altri sistemi conoscitivi diversi da sè. L'attitudine critica del relativismo non può prescindere da una criticità verso se stessa. Negare il relativismo è il compito del relativismo. Il "tutto è relativo" è una banalizzazione che non può esistere concettualmente, perchè andrebbe a dar vita ad una perfetta tautologia. Se proprio dobbiamo trovare uno slogan meglio dire "Molto può essere relativo, molto altro può non esserlo", ma chi ci assicura la partizione? La distribuzione è omogenea oppure no?

L'esclusione scientista comtiana, per esempio, non emerge nel suo evolversi, ma si manifesta solo alla fine del processo conoscitivo perchè, pur dando vita a ulteriori approfondimenti, esclude, secondo le ipotesi, altri possibili risultati, considerati infecondi e/o oziosi. Così è la tendenza anche dei nuovi scienziati o intellettuali post relativisti, tanto da far sembrare la nostra epoca una reinassaince positivista.

Il bersaglio preferito da queste intellettualità è certamente la Chiesa. Gianni Vattimo ha affermato che se un Dio esiste, certamente è un relativista. Anzi è l'unico relativista possibile. D'altronde dal punto da cui ci osserva non può che esserlo, è l’unico che può davvero svolgere la funzione di arbitro che ho precedentemente descritto; e la dottrina stessa del cristianesimo è nella sua essenza primaria, cioè nella dimostrazione dell'esistenza divina, relativista. "Quando due o più di voi sono riuniti in mio nome, ecco io sarò con loro": si svuota di fatto molta della forza del Vero. Non ci dice dove è o chi è, ma ci indica la strada per trovarlo. Nè l'esistenza di Dio, come dicevo, è un articolo di fede. Quindi sono d’accordo con Antiseri: relativista perchè cristiano, cristiano perchè relativista.

Gianni Vattimo vede nella Caritas cristiana il massimo esempio di relativismo che quindi elude per la prima volta le tematiche gnoseologiche e in perfetto accordo con l'idea di sistema sociale, entra a far parte della quotidianità collettiva come un valore che fino ad ora mai si era pensato in quest'ottica. La carità, cioè come diceva Dante, la capacità di adeguare la propria volontà a quella dell'altro è infatti il miglior esempio di applicazione di una weltanshauung relativista.

Insomma, per farla breve: bisogna relativizzare il relativismo. Cercando di contestualizzare e storicizzare la Verità, accettare una verità storica condivisa: non diciamo allora di esserci messi d’accordo quando abbiamo trovato la Verità, ma piuttosto di aver trovato la Verità quando ci siamo messi d’accordo.  Un verità momentanea probabilmente, figlia del nostro periodo storico, figlia dell’uomo di adesso, del nostro uomo.

Attualmente, credo che, nella sua formula originale, non sia una sistema filosofico applicabile. Questo per la brama umana di tener per sè una scoperta, di sostenere una teoria in vista di un traguardo che forse non esiste, di vivere secondo certezze, di ricercarle nella società e sui libri. Di porre esse come baluardo e luce del proprio cammino di formazione, della propria realizzazione. Qualcosa a cui ci si può davvero appoggiare, una fede, un credo che allievi le incessanti domande kierkegaardiane su cosa ci facciamo in questo mondo. Forse la nostra ricerca continua di universalità vuole essere quella prova del nove che altrimenti non avremmo: un qualcosa che ci rassicuri dopo una scelta, un segnale per un bivio.

Il tentativo adesso, di fronte a nessuna soluzione soddisfacente, è quello di concedere attraverso una estensione concettuale, una base etica uguale per tutti, che, di fatto, eluda l'universo relativo e si ponga, sempre in armonia con esso, come universalismo antropologico globalmente condivisibile e difensore di diritti inalienabili. Ma fare tutto ciò non è altro che attenersi alla regola prima, all’essenza prima del relativismo: quella della possibilità di negare se stesso. Quel che appare la via più semplice è un ritorno, senza ulteriori aggiunte, alla sua naturale essenza.

Questa è la mia visione del universo relativo: alla fatidica domanda se io sia un relativista, aggiro l’ostacolo che mi pone la ragione. Per quanto ne so certe teorie mi convincono più di altre, tutto qua.


L'uomo nuovo

Nonostante l’ambiguita’ concettuale che pervade quasi tutto l’operato del grande autore tedesco, e’ ormai assodato che l’interpretazione nazificante del pensiero nietzscheano e’ un po’ forzata, senz’altro basata su un’analisi superficiale di un falso storico. Che Nietzsche non sia il teorico del nazismo lo do quindi per assodato, se non altro in questa mia interpretazione.

Proprio con questa premessa, voglio sviluppare il discorso in un modo differente, cercando di creare un percorso interpretativo che tenga ben conto del contesto storico in cui Nietzsche vive, per superare i luoghi comuni e allo stesso tempo per cercare, se esistono, fondi di verità.

Hegel, Marx, poi Nietzsche: il filo rosso passa necessariamente per questi tre autori. Differenti in tutto, tranne che, a mio giudizio, nel concepire l’analisi esistenziale dell’sistema-uomo in relazione con gli altri e nel tono profetico delle loro opere.

Ci si chiede allora perchè una filosofia all’insegna dell’eguaglianza sociale e della pace possa esser sfociata in una delle più sanguinarie dittature del ‘900 e come le profezie visionarie di Zarathustra abbiano potuto esser interpretate da un regime di violenza e razzismo. Parto da lontano.

Marx compì, col senno di poi, un profondo errore di valutazione: egli di fatto, con la caduta tendenziale del saggio di profitto e la sua necessaria risoluzione nella rivoluzione, sottovaluta la capacità evolutiva del capitalismo e il suo dinamismo fondante.

Per contro, esalta la capacità di evolversi della futura società comunista. Nei “Manoscritti economico-filosofici” prevede due versioni della futura società e che nella “Critica al programma di Gotha” identifica con la prima e la seconda fase della evoluzione del comunismo.

Una prima, violenta nel suo nascere, che ha ancora i germi della precedente borghese-capitalista e che si identifica in un egualitarismo sociale che non tiene conto dei “bisogni e delle capacità degli individui”, con lo stato unico imprenditore e la società unico datore di lavoro. Solamente nella seconda si approda ad un Eden di pace e serenità, ove ognuno vive in relazione alle proprie necessità. Senza classi, senza magistratura, senza proprietà, senza Stato.

Di tutto ciò non si è mai visto niente, gli esperimenti russi (e non solo) non hanno fatto che mal riprodurre la prima fase. Il delirio di onnipotenza di leader egocentrici e autocratici non ha permesso quell’evoluzione che Marx vedeva come naturale, e che, sempre col senno di poi, adesso ci pare se non altro ingenua.

Ingenua ma comprensibile, per il fatto che Marx non vede nel materialismo storico l’operato dell’individuo, ma di una intera classe, una vera mobilitazione di massa. Non è la storia dell’uno, ma quella dei molti. Crede nell’evoluzione del comunismo e nella paralisi socio-economica del capitalismo, ma sempre frutti di una mobilitazione di classe.

Invece nell’incarnazione dello spirito nella storia, nello stato etico, nell’assenza della diplomazia e nella legittimazione della guerra come strumento diplomatico, sta tutta la forza del pensiero di Hegel. Uno stato totalitario non può prescindere dall’attuare quei punti, non può vedere per sua natura l’importanza dell’individuo, ma solo la valenza e la necessità della struttura sociale. La teofania hegeliana si risolve in una lucida e provvidenziale visione di un nuovo spirito e la sua conseguente manifestazione nel corso delle epoche.

Se Hegel è allora teorico dell’assolutismo politico molto più lucido di Nieztsche, non si può però incorrere in un classico errore di prospettiva storica.

Hegel non pensava di certo alle brutture che hanno generato i regimi del ‘900, come pure Marx. Affermarlo sarebbe antistorico e ingeneroso; entrambi nella loro sottile riflessione auspicano un futuro di benessere e di novità.

Ecco, il punto cruciale della mia riflessione.

Hegel uno spirito nuovo, incarnato in una nuova umanità, Marx una nuova società, Nietzsche un uomo nuovo, ubermensch, rinnovato e capace di “andare oltre”.

Ecco il punto che li accomuna: una profetica e mitizzata speranza di un qualcosa di nuovo, rinnovato rispetto a prima. Un’ansia di rivoluzione interiore, struggente, immediata, al confine tra legittimo e illegittimo, ma sempre in cerca di legittimazione e di un’idenità.

Una profezia che fu interpretata dai fenomeni politici in dinamiche assai complicate, vagheggiato dal fascismo, accarezzato e poi applicato dal nazismo e messo in pratica dall’Unione Sovietica sin da subito. Bastò un mese a Lenin dopo la sua nomina a presidente del Consiglio dei commissari del Popolo, a ordinare una categorica e sistematica rieducazione degli oppositori politici. Ne parlò anche Ernesto Guevara nel campo da lui organizzato a Guanaha.

Anche Gabriele D’Annunzio e Benito Mussolini fecero più volte riferimento ad una nuova massa, Adolf Hitler ad una nuova razza. Proclami tardo positivistici, nazionalisti, impregnati di quell’ardore etico e da quel attaccamento mistico alle proprie radici storiche e patrie. Gobinau e Chamberlain costituirono le loro premesse.

Sono società che per loro natura vogliono creare quello che non c’è, dar sfogo alla propria utopia negata, educando, cambiando, invadendo la vita del cittadino, che conta solo nella misura in cui è parte della struttura statale. Non viene tenuto conto del suo individuale sviluppo, delle sue meravigliose tensioni alla realizzazione. Esso deve esser prodotto del proprio tempo, della società che lo costruisce tramite un’ingegneria sociale che toglie libertà su libertà.

Lo Stato politicamente inteso non è e non deve restare una premessa, non deve sovrastare il destino umano, semmai deve costituirsi come forma per il suo dispiegarsi. Il cittadino va inserito nel contesto come parte attiva, avente diritti fondamentali garantiti e non imposti forzatamente da un regime che, quindi, non diventa altro che un fenomeno proiettivo e alienante. L’uomo hegeliano proietta nello stato un traguardo individuale e finisce per esserne vittima. L’uomo marxista riflette la volontà di rivincita e di realizzazione tipicamente borghese nell’attivismo di un’intera classe.  Nietzsche è forse l’unico che prende in esame l’individuo, prospetta l’avvento di un “oltre-uomo” ricco di valori classici che salvi la società dall’incubo attuale, offra al mondo un’umanità rinnovata, nuova nella sua totalità e nel suo approccio totalizzante con la realtà. Totalizzante proprio nell’eroico rifiuto di veli celanti, di “false speranze e menzogne consolatrici”. Un’accettazione universale della vita che fa l’eco alla moglie joyciana di Ulisse, che rivela una visione desacralizzante dell’attualità e che propone il Ricordo del passato, in una concezione della vita, della storia e del futuro molto suggestiva, fatta di ritorni e di immortalità.

E’ una paralisi destabilizzante, un ostacolo immobilizzante quello che si frappone nello sviluppo dialettico dello spirito nieztscheano, proprio come “la neve sopra tutti i vivi e i morti”, che impedisce la rivincita dell’ubermensch, l’epopea cavalleresca di un uomo diverso dal precedente, fiero, orgoglioso, nuovo in tutto e per tutto.

Un nuovo Enea e un nuovo Ulisse che simboleggiano un nuovo mondo, la brama salvifica di un poeta-filosofo che ha amato la vita come nessuno.  

Ecco, forse è proprio quest’irrefrenabile desiderio di novità ad accomunare questi tre pensatori. Un minimo comune denominatore che ha contribuito, anche in indubbie diversità, alla concretizzazione storica delle loro teorie e, in parte, alla loro mortificazione.