"L'intellettuale è un signore che fa rilegare i libri che non ha letto" [Leo Longanesi]

sabato 16 febbraio 2008

Il gatto e la volpe

"Pagare meno per pagare tutti", "pagare meno, pagare tutti". Soltanto un "per" di differenza, tra gli slogan di Francesco Storace e WV.
(Quasi) a dire che ormai, dopo anni di lotta ideologica, che bisogna abbassare le tasse lo hanno capito proprio tutti. E forse anche che la vecchia massima "pagar tutti, per pagare meno", sciorinata da chi riteneva (e ritiene ancora) le tasse e l'ingerenza statale "cose bellissime" è fondamentalmente tautologica.
Da destra a sinistra: con sfumature diverse, forse con obiettivi diversi; da chi vuole il sostegno della ridistribuzione sociale, chi preferirebbe la crescita e l'incentivo all'investimento. Poco importa, adesso il tema si fa meno scottante, inevitabilmente noioso. Tutti in fondo la pensano allo stesso modo. E questo probabilmente la dice lunga su una situazione politico-economica, che riesce a mettere d'accordo tutti.
Ma forse, no. Non sono solo le disgrazie di un Paese bloccato ad accumunare chi generalmente la pensa in modo differente. Basterebbe leggere un libro di De Felice, o di Aron, per capire le (indiscutibili) analogie tra pensieri apparentemente molto differenti, o meglio, differenziati dalle etichette pregiudizievoli e stringenti di "destra" e "sinistra". Non diciamo sciocchezze: le folkloristiche (e metarazziste) opinioni sui gay-pedofili, sui Dico, sulla famiglia e i valori della tradizione che caratterizzano la forte identità di un partito come "La Destra" lasciano il tempo che trovano, seppur specchio di una concezione vecchia, ritrita, che fa anche un po' pena. Ma allo stesso tempo sono talmente lontane dalle istituzioni più o meno democratiche italiane, che risultano più inoffensive che altro. Sono le propagande gridate di chi fondamentalmente non ha altro di più accattivante da proporre, se non un rigurgito di anti-politica riesumato dal collante di nazional-popolare che tiene (e terrà sempre) insieme il corpo elettorale italiano.
Eppure su queste differenze la sinistra radicale si scaglia veemente, grida al razzismo, al fascismo, al totalitarismo. Grida convulse, giustificate, piazze gremite. Inutile, tutto inutile, semplicemente per logica elettorale. E invece si rifiuta di vedere un aspetto fondamentale, cioè che su quello che conta veramente, sul piano dell'azione di governo, sulla politica economica e la concezione dello Stato, sono pappa e ciccia, come due vecchi compagni di corso. Sì, loro due: Francesco Storace e Fausto Bertinotti.
Ho letto attentamente, pur non essendomi interrogato in materia per più di quaranta secondi, il programma dettagliato de "La Destra".
Compaiono come il prezzemolo assiomi "contro lo smantellamento liberista", come se la dottrina politico-economica che ha reso grande la Gran Bretagna, fosse retta da una pura logica di riduzionismo o deflazionismo fine a se stesso. Più avanti, si nota un titolone "la Destra per la comunità, contro l'individualismo", con relative allusioni ad un "rinnvato Stato sociale", tant'è che a un certo punto mi pareva di leggere il verbale dell'ultima riunione dei "fighetti comunisti" di M. Boldrin. Tra le aspre critiche alle riforme, per altro insufficienti, operate dal centro-sinista alla Costituzione compare una proposta di reintroduzione della "clausola dell'interesse nazionale", irresponsabilmente soppressa, affinchè lo Stato, simbolo di Autorità, coercizione e consenso, possa intervenire per tutelare i superiori interessi della Nazione qualora venissero compromessi dagli egoismi locali.
Il paradosso è palese e sta nel fatto che i grandi difensori della Carta del '46 capeggiati da Oscar Luigi Scalfaro, che si battono quotidianamente per la soppressione di quelli che chiamano "attentati alla Costituzione", ovvero gli interventi desiderati da chi vorrebbe meno Stato e più individuo, sono sempre stati di sinistra. E come mai ora che hanno trovato un alleato perfetto non sbandierano in piazza l'idea di Storace che vuole semplicemente rinnovare e riavvalorare l'intento dirigista della Costituente, tanto amato dagli italiani, incentivando ulteriormente quello che sarebbe l'ennesimo vero attentato alla libertà del singolo sottomesso al "bene della comunità"?
Come mai Fausto Bertinotti, e come lui migliaia di altri politici e intellettuali catto-comunisti (perchè a questa idea ha contribuito tantissimo anche il Cristianesimo), che hanno sempre tacciato il liberismo e l'iniziativa individuale come la via verso il "vil danaro" e il "peccato dell'economia", e hanno sempre promosso uno Stato che assistesse, regolasse, indirizzasse la vita economica del singolo non appoggiano l'idea anacronistica dell'ex di AN? Perchè poi, in Parlamento, è questo che conta, sono questi i pensieri fondanti che si riversano sulle politiche fiscali, sul ruolo della proprietà, sulla concezione della concorrenza e del mercato del lavoro.
Proseguo la lettura del documento e mi imbatto nell'idea di meritocrazia che, a detta dei sottoscrittori, ha da sempre contraddistinto, la Destra italiana (basterebbe leggere "il Posto" di Vitaliano Brancati, per capire che questa è una scempiaggine incredibile) e che dovrebbe entrare anche nell'impiego pubblico, cercando di attuare piani di promozione e di assunzione volti a mutare l'immagine di assentismo, improduttività e clientelismo tipici dell'impiego statale italiano. Tutto giusto, tutte parole condivisibili, forse anche per un comunista convinto. Eppure, ciò che servirebbe e che davvero sta a cuore a chi ne capisce qualcosa di politica economica non compare: non si fa menzione di quelle che sono tacciate come "opere smantellatrici", cioè quei tagli di impieghi e di spesa pubblica che davvero servirebbero per rilanciare il paese: e questo perchè la Destra italiana, così come gran parte della sinistra, fa leva sullo zoccolo duro del pubblico, necessario alle elezioni, e importante nel perseguimento, o se vogliamo, nell'ostacolamento delle iniziative liberiste che offrirebbero ai privati incentivi, stimoli, occasioni.
E allora io propongo che FS e FB si fondino e diano vita ad una nuova formazione, "La rifondazione della Destra sociale", o qualcosa di simile, l'importante che compaia l'aggettivo sociale per segnare bene le distanze dall'egoismo atomistico del liberismo. Oppure, magari, cosa più auspicabile, si smetta di dividere il mondo in destra e sinistra e si incominci ad analizzare le posizioni politiche e non quelle parlamentari.
Pubblico e Stato suono due miti tutti italiani, gli sconfitti di un'Italia che non rischia, si adagia spesso, non premia nè incentiva. E' un paese bloccato, dove se sei dentro ce la fai, altrimenti no. E rimani a guardare il siparietto del gatto e la volpe, divisi dalla Storia degli uomini, da confini netti e inderogabili. Lontani per tradizione, ma uniti da avversari comuni. La destra "sociale" ama dirigere, vuole uno stato forte, ordinato, lontano da logiche di concorrenza che premiano e al contempo bastonano. La sinistra, in primis quella più radicale, vuole che "anche i ricchi piangano". Come la Bibbia, che condanna Adamo all'abbandono del paradiso terrestre e all'eterna permanenza nel mondo del "materiale" in cui la necessità economica del lavoro soppianta fini più nobili e veraci, la sinistra italiana desidera che la corruzione dell'attività economica possa essere nobilitata da uno sguardo al sociale, alla collettività, allo Stato. Quelli che in fondo il denaro non è tutto, che il regno del perfettismo reale equidistribuito venga retto dai vecchi schiavi del capitale, e non più animato dai "sospiri della creatura oppressa".
Entrambe queste concezioni sono pervase da una tendenza manifesta di livellamento verso il basso, dal convincimento che il gioco a cui partecipano sia a somma zero, ma forse anche da un senso di sobrietà e pudore che ormai ci appare fuori moda nella società del superfluo e dell'immagine.
Poco importa, i mezzi utilizzati sono gli stessi, fin dai tempi di Platone. Sempre gli stessi.

mercoledì 13 febbraio 2008

Perchè non sono un conservatore

Il fatto che la corrente liberale o libertaria sia sempre stata accomunata, per ragioni di logistica politica o di semplice opportunismo, all'universo politico della Destra ha traviato fortemente la dimensione partitica italiana, tanto da inserire questa dimensione filosofica così sfaccettata e complessa all'interno di una logica di appartenenza ristretta e mortificante.
Le categorie illuministiche di riformismo e conservatorismo hanno inevitabilmente contagiato questa visione, dimenticando la necessaria contestualizzazione e storicizzazione di questi due atteggiamenti: tradizionalmente agli esponenti dei partiti della Destra è stata affiancata un'anima conservatrice, che, in un modo, è entrata a far parte della sua definizione.
Se però questa etichetta, seppur generalista, ha ancora uno sfondo di verità, mi meraviglia molto il fatto che per anni, nonostante il reale fallimento comunista, e quello più teorico del socialismo reale, la Sinistra abbia mantenuto la sua aurea di riformismo incondizionato, calato da un atteggiamento di superiorità morale e culturale mai messa in discussione. Il fatto che per anni si sia pensato che il liberalismo faccia parte integrante dell'universo politico della Destra non può che portare ad un inevitabile rivisitazione dei due termini, e alla constatazione della loro parziale capacità di descrivere una realtà poliedrica.
Scrive Hayek, "In un'epoca in cui gran parte dei movimenti progressisti sono favorevoli ad ulteriori attentati alla libertà individuale, facilmente chi ha cara la libertà consuma tutte le proprie energie opponendovisi. Molto spesso, in questo, si trova dalla stessa parte di coloro che sono avversi a qualsiasi cambiamento".
Insomma, su questo piano i conservatori sono stati buoni alleati per la causa liberale: ciò nonostante, sul piano di fondo, le differenze si manifestano in modo determinante.
Il liberalismo e la sua forma più integrale e profonda del libertarismo, sono per natura fiduciosi nelle capacità dell'individuo, promuovono l'eliminazione di ogni ostacolo allo sviluppo dell'individuo, sia esso posto in una logica di mercato o nel più circoscritto ambito della propria realizzazione personale, in modo da facilitarne l'evoluzione spontanea.
Sul continente europeo, il panorama liberale ha sempre sentito dell'influsso della Rivoluzione Francese, che ha portato di fatto ad una considerazione dello Stato come concessore di un ordine sociale predefinito, in cui la dimensione interpretativa della conoscenza era appannaggio di pochi, aspetto che deriva dal fatto che la sua dispersione avrebbe facilmente reso velleitario ogni tentativo di istituire un "ordine supremo".
Se l'economia è la scienza che studia l'allocazione di risorse scarse (Robbins), allora uno stato che impronta la propria azione sulla pianificazione decide a prescindere il sistema di collocamento delle risorse con cui gli individui raggiungono i propri fini e soddisfano i propri bisogni. Di fatto l'autorità costituita, determinando arbitrariamente i mezzi economici, indirizza anche i fini di ciascun individuo, che spesso vanno oltre la natura economica da cui sono originati. E se le finalità di ciascun individuo, come accade, sono dettate da valori condivisi, e a loro volta, sono capaci di influenzarne la formazione, chiunque detenga questo esclusivo controllo sulle masse, decide anche quali siano i valori da perseguire e quali no, costituendone una gerarchia statica e conservatrice, da cui si generano inevitabilmente caste e privilegi.
Il controllo economico, desiderato tanto dai conservatori per opporsi ai mutamenti del progresso, quanto dai socialisti per la realizzazione del loro Eden sociale, non può essere quindi scisso dalla totalità delle libere scelte di ciascuno, perchè non ne è solamente un aspetto fra tanti, ma è l'aspetto che influenza maggiormente la completa realizzazione individuale. E' stato questo errore di prospettiva, che vedeva la sfera economica come un aspetto a se stante la globalità dell'individuo, a portare alla proliferazione dei sistemi di economia mista tipici del XX secolo.
L'attenzione delle politiche economiche si è rivolta non tanto verso la crescita e l'incremento di produttività (e conseguentemente degli standard di vita), ma piuttosto verso una logica redistributiva, di prelievo e offerta statale. L'idea che l'utilità marginale (e la correlata percezione del valore) potesse essere misurata in assoluto e non solamente in relazione ad altre dimensioni affini, ha portato di fatto alla convinzione che i benefici in termini di consumi e di crescita ottenuti tramite il trasferimento di ricchezza tra i contribuenti, fossero maggiori dei disincentivi all'investimento gravanti sui grandi patrimoni. Tutto ciò nella certezza che si potesse misurare con esattezza il valore di 1$ trasferito, unicamente in relazione alla totalità delle sostanze del beneficiario, arrivando quindi ad un risultato nettamente positivo, proprio come 1/10 è maggiore di 1/30.
Ma se l'utilità di un bene al raggiungimento di un determinato fine non è quantificabile matematicamente, dal momento che dipende da un insieme di giudizi di valore dettati dal confronto con altri beni, è possibile solamente stilare una classifica di priorità in cui l'individuo, come consumatore, preferisce A rispetto a B, e B rispetto a C. Ne consegue l'impossibilità di misurare, sotto il profilo quantitativo, l'utilità marginale dei fattori presenti sul mercato, e la legittimazione di un'analisi puramente qualitativa: partendo da questo presupposto, risulta ancor più fallace il tentativo di instaurare un confronto tra le utilità di persone differenti.
Sul piano più strettamente etico, questa matrice costruttivista nega il fondamento dell'"evoluzione spontanea" dell'individuo, e ogni possibilità di una "Grande Società" in cui sia impossibile dettare una linea di interpretazione comune.
Si può dire che il conservatore una volta perseguito il proprio fine, sia anch'esso un governo fatto dai migliori, o da tutti i più saggi, il problema che si pone è più quello di limitare il loro potere reale che di restringere il campo di azione degli apparati amministrativi messi a loro disposizione.
E' il primato dello Stato sull'individuo, che non può agire se non all'interno di un'unità di azione prestabilita: in altre parole, il primato della politica sulla società civile.